Conto le maglie, ma non so se devo contare i buchi che si formano nella trama o se devo numerare gli spazi in cui i fili si incrociano, si sovrappongono e poi si allacciano. E se non facesse differenza? Se alla fine del conteggio scoprissi che le maglie di una rete sono sia i vuoti che i pieni perché la geometria dei pescatori li fa coincidere perfettamente nei numeri? Essendo dei quadrati mi sa che dovrei fare un ragionamento che si basa sulla logica; in effetti se fossi un matematico non avrei bisogno di stare qui nella rimessa a contare i vuoti o i pieni, mi basterebbe applicare una formula e conoscerei immediatamente il risultato. Oppure potrei chiedere a mia figlia, che con l’aritmetica è davvero una maga, lei me lo direbbe all’istante risolvendomi l’enigma. Io però prediligo la creatività, la precisione dei numeri mi annoia e poi, diciamolo francamente, non entro in casa a disturbare Martina mentre sta studiando, che sicuramente le rompo le scatole ed è anche capace di pensare che suo papà ha dei limiti e si perde in un bicchiere d’acqua. No, no, Martina la lascio in pace sui libri per la maturità e io mi arrangio. Meglio se sto in solitudine, nel recinto delle mie manchevolezze, a convincermi che per conoscere il numero delle maglie di una rete basta inventarsi un metodo. E decido anche che ognuno può inventare il metodo che gli pare e che si deve accettare il risultato, che piaccia o meno, lo si deve mandare giù. Allora…vediamo…non devo immaginare di aprire la rete perché mi si paleserebbe agli occhi la geometria e mi verrebbe da far di conto, devo quindi immaginare di accartocciarla e farne un fagotto. Che risultato ottengo? Che le maglie sono in eccedenza perché formano una palla, o meglio un pallone per via delle dimensioni e che quindi la rete perde la sua natura di trama che imprigiona i pesci e si trasforma in barriera che non li lascia entrare. Mentre mi rigiro fra le mani il pallone di rete mi viene da dire che il metodo dell’accartocciamento non mi soddisfa, no, no, non funziona. Devo escogitare un’alternativa che abbia un senso, possibilmente. Sciolgo la rete, la apro e, senza distenderla completamente, mi viene l’istinto di avvolgermela intorno al corpo, come fosse uno scialle. Non che riscaldi eh, l’aria passa eccome, però mi sento al sicuro e anche libero. Si, si, il metodo dello scialle mi convince, la rete può trasformarsi in una coperta, un vello, un manto. Così mi piaccio, sono partito con l’idea di contare le maglie della rete da pescatore che giaceva nella rimessa da secoli e mi sono ritrovato a maneggiare il bisogno di protezione che di solito fa a cazzotti con l’anelito di libertà. E ho persino trovato la soluzione. Per un papà che ha dei limiti, direi che me la sono cavata, si, si.
Le maglie
22 domenica Mar 2015
Posted Senza aggettivi
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ggianluigi ha detto:
…Anche come scrittore direi!👍
La soluzione scelta è perfetta. Rimane l’interrogativo sui buchi e sugli incroci, ma alla fine prevale la soddisfazione per un risultato insperato ed è quello che conta.
Una delle caratteistice fordamentali dell’intelligenza umana, e la capacità di “saper vedere” in qualcosa un “qualcos’altro” ovvero saper utilizzare impropriamente gli strumenti disponibili.
E mi pare che anche qua entrino in gioco quesiti filosofici da niente. Non vorrei spingermi fino ai limiti della mia comprensione, oltre i quali inizierei ad avere allucinazioni e capogiri. Ma i buchi non sono forse quel “nulla” che consentono alla rete di “essere” qualcosa? Insomma originale il tuo racconto, stimolante, ricco di spunti tutt’altro che ozosi.
Mi viene in mente il celebre slogan “il buco con la menta intorno” che nella sua apparente stupidità, pare facesse infece riferimento nientemeno che alla 1* estetica Lacaniana ovvero “L’arte come organizzazione del vuoto” Hai detto niente!!! una caramella da quattro soldi? Eh sì.
Gli incroci della tua rete, mi verrebbe da dire parafrasando il di cui sopra, “costeggiano il vuoto ineliminabile della “cosa” ovvero quel “niente” indefinibile in sé.
Un po’ come gli spazi bianchi di un giornale che consentono agli spazi neri (scritte) di avere un significato.
…adesso però veniamo a cose …serie. 😳
Bel miniracconto. Ormai il problema degli aggettivi sembra diventato un ostacolo solo apparente. Me lo avessero detto prima, non ci avrei creduto.
Volevo aggiungere en passant, che la soluzione scelta dal protagonista per dirimere la questione è tipicamente femminile. Un uomo (generalmente più stupido, o razionale a seconda dei punti di vista) si sarebbe ottusamente ammazzato con i numeri. Lo volevo dire ma non lo dico per non apparire politicamente scorretto nell’era dell’omologazione.
Anzi no lo dico! 😁
mirimettoingioco ha detto:
Hai ragione Gianluigi, è il risultato che conta e il protagonista nemmeno ci pensva a quel risultato quando si è posto il primo interrogativo, voleva solo passare il tempo, riordinare la rimessa e si è ritrovato fra le mani un dilemma esistenziale. Ha osservato con occhi diversi il vuoto lacaniano percorrendone i bordi e nel mezzo del buco con la menta intorno è venuta fuori la sua creatività che ha riempito d’essenza gli interstizi fra i vuoti e i pieni. Qui mi fermo che anche io mi sto spingendo oltre i limiti della mia comprensione e rischio di scrivere solo fesserie.
Anche io non immaginavo che si potesse scrivere senza aggettivi qualificativi, è stato un bell’esperimento, decisamente educativo.
Grazie per gli apprezzamenti, ma…mi stai dando della femmina? 😉
ggianluigi ha detto:
Noooooooooooooooo. Sì 😳
Andrea ha detto:
Bella l’anti tesi vuoto-pieno e come l’uno necessiti dell’altro, come in un moderno Tao. Anche nell’atomo, il mattoncino di Lego alla base di ogni cosa, lo spazio vuoto è di gran lunga superiore rispetto al pieno (nucleo). E nell’Universo la massa occupa uno spazio limitato rispetto al vuoto tra le galassie.
Alla fine il nostro protagonista forse comprende questa verità e cerca una soluzione diversa, meno logica è più spirituale.
mirimettoingioco ha detto:
E’ proprio quando ci si trova di fronte agli interrogativi basici della vita (che in questo caso sono vuoto/pieno, logica/spiritualità) che si capisce per cosa si è più portati, quali sono le inclinazioni verso cui tendiamo. Le soluzioni che naturalmente emergono dalle nostre riflessioni sono quelle che più ci rappresentano e in cui ci piace identificarci. Per questo il protagonista è soddisfatto, perchè si è riconosciuto nella soluzione creativa.
mirimettoingioco ha detto:
Per Gianluigi 😉
tempodiverso ha detto:
un altro bel racconto, dove la rete diventa strumento per fare bilanci, ma non è possibile separare i vuoti dai pieni, due facce di una stessa medaglia e alla fine il protagonista sembra accettare che la rete si deve prendere in toto e nella sua interezza può diventare scialle rassicurante, e se metaforicamente i vuoti possono essere gli sbagli , le manchevolezze, le paure, ci sono i pieni, le azioni giuste. la soluzione dunque è quella di guardare l’insieme.
mirimettoingioco ha detto:
Esatto, guardare e accettare l’insieme, guardandosi e accettandosi complessivamente. La rete come pretesto per mettersi alla prova, per mettersi in discussione e per trovare un compromesso che ci renda fieri di noi.
mirimettoingioco ha detto:
ps: una bella responsabilità per una povera e innocente rete da pesca…
tempodiverso ha detto:
ma quante grandi intuizioni sono nate da oggetti banali! 🙂
“Gli oggetti sono cose che non dovrebbero commuovere, perché non sono vive…”
eppure… hanno ‘responsabilità’ e significati che vanno oltre il loro uso
mirimettoingioco ha detto:
…e io aggiungo l’odore che accompagna certi oggetti. Quando al tatto si mescola l’olfatto, la responsabilità e i significati che dici tu si amplificano a dismisura e allora è tutto un evocare, un immaginare, un ricostruire.
ggianluigi ha detto:
Proust… Così.
“Ma quando di un passato lontano non resta più nulla, dopo la morte degli esseri, dopo la distruzione delle cose, soli, più fragili ma più vividi, più immateriali, più persistenti, più fedeli, l’odore e il sapore rimangono ancora a lungo, come anime, a ricordare, ad attendere, a sperare, sulla rovina di tutto il resto, a sorreggere senza piegare, sulla loro stilla quasi impalpabile, l’ immenso edificio del ricordo.”
…Ma lui però gli aggettivi poteva usarli ehh
miscarparo70 ha detto:
Un bell’uso della rete e delle sue maglie. Anche se quel finale, con una soluzione sottesa, ha solleticato la mia fantasia logica: esisterà una trasformazione che renda omeomorfa una rete con un cilindro? O con un toro? Roba da medaglia Fields… 🙂
Per il resto un’altra bella prova, a ulteriore dimostrazione che gli aggettivi sono inutili. E anche a dimostrazione che l’intuito maschile c’è, nascosto tra le pieghe di una rete…
mirimettoingioco ha detto:
Cosa caspita è la medaglia Fields? Confesso di aver cercato la risposta in “rete” perché io, come il mio protagonista, con la matematica mica vado d’accordo.
Grazie miscarparo, finalmente un uomo che mi dà del maschio…. 😉
massimolegnani ha detto:
mah, confesso che non sono entrato in sintonia col brano, il dilemma, se contare le maglie o i buchi, i vuoti o i pieni, mi ha lasciato piuttosto indifferente e anche la scrittura non mi ha emozionato. Non me ne volere AI, sarà per la prossima volta.
ciao,
ml
mirimettoingioco ha detto:
Non te ne voglio ml, figuriamoci! Al prossimo giro magari ti convincerò.
Stefi ha detto:
Anche io non sono entrata nella “logica” del brano, la penso un po’ come ml col quale sono spesso in sintonia. Qualche aggettivo possessivo è scappato, ma è pur vero che erano ammessi, seppur con parsimonia. Il protagonista mi fa tenerezza, lo immagino avvolto nella rete a cullarsi nei suoi dilemmi con lo sguardo perso nel vuoto.
mirimettoingioco ha detto:
Eh si, è presente un risvolto tenero in questo papà che vuole farcela da solo e che, imbrigliandosi nella rete, si ritrova a volersi bene e ad essere soddisfatto di se stesso.
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