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…qui arrivano solo gli ospiti giusti,
questo è il Cerchio Ermetico
H. Hesse

 

Li aspetta, Alberta.
Come pietre in frana, scendono giù dalla montagna gli uomini delle tammorre. Corrono, spostando il peso del corpo a monte per contrastare la ripidità della discesa, come per resistere a un’attrazione fatale. Solo uomini ammessi alla salita al Monte Somma nel secondo sabato di maggio. Uomini e tammorre e sudore e muscoli forgiati dalla zappa e voglia nascosta nei pantaloni. Il suono ossessivo, prodotto dalla mano sulla pelle di capra tesa dalla fascia di legno d’ulivo curvato, arriva a quelli che aspettano in basso: le donne.
Fra le donne, Alberta. Gli occhi grandi e accesi, scrutano fra gli alberi per cercare Folco. Quella stessa mattina l’aveva lasciata tiepida, ancora aperta, palpitante fra le lenzuola stropicciate. Si era staccato a viva forza da lei, si era mosso piano nella semioscurità della stanza vestendosi tra fruscii e imprecazioni e se n’era andato con la sua tammorra tenuta per mano.
Tammorra è femmina, concava di suono e lunare di forma. Si tiene fra le mani, si possiede con grazia e leggerezza, con forza. Agile e sciolta è l’oscillazione della mano che regge, che porta verso la mano che batte col polso e con le dita, con i suoi monti planetari. Batte col ritmo del sangue e del respiro. Lo sente, Alberta, lo sente confondersi col battito cardiaco che ha in mezzo alle cosce, ora. Sovrapporsi e unirsi. Un palpito unico, arduo, cupo e sincopato.
Al suono che sembra sgorgare dalle viscere della montagna risponde a valle altro suono. Un riverbero secco di legno cavo posto nel cavo della mano. Il tempo della danza è portato dalle donne. E’ tempo svelto, serrato, tenuto a mani basse, le braccia ancora vicine ai fianchi, quasi trattenute, frementi per l’imminente liberazione. E’ il richiamo delle donne che le hanno precedute, dei loro calli alle mani, di volti segnati dalla fatica, della loro ostinata perseveranza quotidiana. E’ l’eco degli innumerevoli passi scalzi di una danza che è orgiastica e liturgica, amore sacro e amore profano, le madonne e le puttane.
“Una donna strana, questo sei. Insolente.”
Folco non poteva perdonargliela. Non riusciva a capire quel no fermo, anche se detto con dolcezza. Qualsiasi altra ragazza gli avrebbe buttato le braccia al collo. E invece lei no, lei non vuole sposarsi e allora lui per quale motivo si ammazza ogni giorno nei campi?
“E’ una gabbia, è la tomba dell’amore. Tempo quattro, cinque anni e l’allagherai di bugie, ti morderai la lingua infinite volte, sognerai di essere altrove.”
Un no irremovibile, il no di chi sa ciò che non vuole. E’ un’offesa per Folco, una ferita. E’ la frattura del suo mondo sorretto da semplici certezze. Una vita ancorata ai ritmi di crescita e di distruzione della natura, nuda e cocciuta come quella delle piante: nascere, crescere, dare frutti, morire, che altro? Ma Alberta dice che l’istinto materno è una roba primitiva, che non puoi solo pulirgli il culo e riempirgli la pancia, ai figli. Proprio lei, che ha tirato su sette fratelli. Lei e quella sua spavalderia sfrontata che lo rende insicuro e schivo.
Un canto comincia. Il canto a distesa della fronna: una voce maschile intona a cappella il saluto iniziale. E i piedi si muovono quasi inconsapevolmente, battono il tempo, si fermano, accennano un passo, vanno un po’ incerti, sbadati, all’improvviso spavaldi quando gli uomini arrivano correndo, come senza attrito, nello spiazzo di terra battuta. Sospinti gli uni verso gli altri da un magnetismo sconosciuto, uomini e donne, donne e donne, uomini e uomini, giovani e vecchi formano le coppie. Si avvicinano senza esitazioni, a volte senza conoscersi, riconoscendosi, con la libertà di essere maschio e di essere femmina: la femmina può ballare come il maschio e il maschio come la femmina.
E un cerchio si forma intorno alla danza, cerchio ermetico di corpi che ferma il tempo canonico, che racchiude, protegge e rende visibili. Le coppie si muovono nello spazio circolare sapendo il proprio spazio, in uno scorrere che è aspro e forte. Una danza fatta di strappi, di colpi, come quelli del sesso e della guerra. Dalle loro dita nastri colorati come stelle filanti, fluidi come zampilli di sperma si liberano nell’aria, seguono il movimento ampio e aggraziato delle braccia, che simula il gesto di scoccare la freccia dall’arco. I corpi si avvicinano quasi fino a sfiorarsi e poi si ritirano di colpo, i passi dell’uno nell’orma appena lasciata dal piede dell’altro, in un rincorrersi in cui non ci si prende mai. Di fronte, di fianco, sopra, sotto, uscendo, entrando, come nel sesso. Non ci sono due coppie uguali, non esistono passi da tenere a memoria, non esiste memoria nell’alfabeto del corpo, solo il colore e l’intensità del gesto, sempre unici e diversi.
La gola esposta, monade inconsapevole, Alberta danza col suo uomo. Si accosta e si sottrae, gli va sotto, ma non lo tocca mai; dondola il culo, mentre sale e scende, in quel modo che riempie di calore le pelvi maschili e svuota di sangue le loro teste. Folco la porta con gli occhi, occhi dai quali lei non stacca mai i suoi. Tenuta da quello sguardo, Alberta si abbandona, concede il corpo al vortice della danza. Senza urti, braccia e gambe dell’uomo e della donna s’incrociano nell’incastro perfetto del maschio e della femmina: ciò che si ritrae, è invaso da ciò che avanza e ciò che si protende trova accoglienza. Lei s’inarca, concava, e sfiora con le punte sfrontate dei seni il torace dell’uomo. Lui s’inarca, convesso, e cerca col bacino teso il grembo della donna. E l’uno per l’altro sono il perno intorno a cui ruotare, perdersi e ritrovarsi.
Ci pensa, Alberta. A quel desiderio che a lei scava il ventre e che a lui colma i lombi, innescandoli di forza contratta. All’eterna danza del darsi e ritrarsi, dell’ostinazione e dell’arrendevolezza, al continuo battere e levare. E vorrebbe avere sempre la leggerezza della danza: quella sconsiderata sapienza costruttiva di lasciarsi legare senza legare. E vorrebbe che lui fosse unito da quell’eccitazione convulsa ed essenziale e la consapevolezza dell’interezza dell’amore femminile.
Il ritmo cambia e le tammorre battono in uno, la musica suggerisce il tempo della vutata. E’ rotazione e rivoluzione, come quelle della terra: di fronte, bloccando i corpi un attimo prima dell’abbraccio, vicini a sfiorarsi e subito dopo di schiena, invertendo la direzione, le teste inclinate indietro a non perdere mai gli occhi. E ancora il tempo cambia e ricomincia la caccia, il corteggiamento, la lotta, a ogni cambio di tempo un po’ più vicini, più speculari. Le tammorre battono in uno ancora una volta e uno diventano i corpi. La gamba sinistra flessa e appoggiata sull’anca dell’altro, formano un unico, indivisibile individuo, con due gambe, due teste e due cuori, in un contatto che è fusione e contrasto, equilibrio e bilico.
Lo sa Alberta, quanto è duro e difficile l’amore.
Ma è colta da sorpresa quando la mano del suonatore estrae dallo strumento sfinito gli ultimi tre colpi, forti, fermi, inesorabili come i colpi del cuore. Tre proiettili sparati in aria a comunicare la fine delle danze, che lei, in fondo, vorrebbe continuassero per sempre.