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Marianna era di fronte a un bivio. Rimase per un po’ di tempo ferma, con l’indice posato sulla tempia destra e l’espressione indecisa. Guardò a destra, arricciò il naso e immaginò la gelateria che l’attendeva oltre l’angolo. Si leccò le piccole labbra, sorridendo, e quasi si decise a svoltare. Eppure, proprio quando Lelly e Kelly, le sue scarpette preferite, erano sul punto di lanciarsi in un galoppo rosa e luccicante, esitò. Spiò sulla sinistra e pensò all’altalena, al fruscio dei vestiti nell’aria: s’immedesimò a tal punto che udì il cigolio degli snodi metallici andare e venire nei timpani deliziati. Al solo rievocare l’emozione di sfiorare gli alberi, anche Lelly e Kelly tradirono un evidente trasporto lanciandosi in una breve teoria di piroette e saltelli sul posto.

Tormentata dal dubbio di un imperdonabile errore, Marianna iniziò a camminare in cerchio al centro del viale alberato, appena imbronciata. E’ vero che desiderava un gelato regale, con la sua immancabile corona di panna montata, ma d’altro canto la allettava pure l’idea di spericolati volteggi nel vuoto. Aggrottò la fronte e sbuffò, sedendosi sconfitta sull’orlo del marciapiede con le gambe incrociate. Consultò alcuni brandelli di cielo arsi dal sole di Luglio, poi volse di nuovo lo sguardo alle strade che la chiamavano, la interrogavano e la tentavano. La gelateria a destra e l’altalena a sinistra. La gola e il brivido, il gusto e l’emozione: eh, quella che le si presentava quel giorno era davvero la scelta più fondamentale dell’universo. Al suo ritorno, infatti, avrebbe potuto trovare la strada sbarrata o il ponticello crollato: e se fosse rimasta per sempre confinata a destra o a sinistra? E se avesse incontrato un drago, un’astronave aliena o uno stregone malvagio? Del resto, nella sua mente di bambina, tutto sarebbe stato possibile.

O meglio, tutto tranne andare in altalena mangiando un gelato: equilibrismo rischioso, foriero di panna e pistacchio tuffati a squagliarsi nell’erba, come aveva purtroppo imparato a sue spese. Eh, quella sì che sarebbe stata una tragedia, altro che draghi o dubbi amletici! Il senso pratico della bambina fece piazza pulita d’ogni sofisma letterario e Lelly e Kelly zampettarono allegre in direzione del parchetto oltre l’angolo. Giunta all’apertura dello steccato, si guardò intorno, ma stranamente il prato la salutò in silenzio: lo spazio giochi era deserto. Le scarpette restarono per qualche attimo immobili osservando perplesse l’altalena, finché Marianna non s’avvicinò con gli occhi sbarrati per toccare con mano l’orrore. Chi poteva aver straziato a quel modo il passatempo più amato dai bambini? L’altalena oscillava appena, senza vita, con l’asse per sedersi appeso in verticale ad una sola catena. Marianna tirò su col naso, toccò la catena superstite e s’incantò a studiare il gancio vuoto sul travetto orizzontale; poi accarezzò l’assenza degli anelli metallici e rabbrividì trovandola fredda quanto il marmo della tomba di nonno Michele. Ciononostante si riprese in un batter d’occhio: restava comunque in piedi l’opzione successiva, la “fase due”, ovvero che per magia la moneta da due euro si trasformasse in un cono panna e pistacchio; quindi con un’agile piroetta s’incamminò saltellante verso il gelataio.

In meno di tre minuti raggiunse la piazzetta su cui s’affacciava la gelateria I scream,gelati da urlo, trovandola piena di gente agitata e lampeggianti blu. Marianna seguì il moto delle grida stridule che salivano al cielo e trovò la sagoma di Piero, il gelataio, appeso al cono gelato gigante sopra l’insegna. Era la prima volta che vedeva il gelataio per intero, essendo troppo bassa per l’universo celato dal bancone, e la scoperta che l’addome obeso si puntellasse su gambe lunghe e sottili come cannucce da granita la lasciò a bocca aperta. Tale rivelazione fu però subito eclissata da un’altra ben più sconcertante: ciò che girava attorno al collo dell’uomo per appenderlo all’insegna era una fila di anelli metallici. Ecco dov’era finita la catena dell’altalena! La bambina si divertì a sfocare lo sguardo, finché Piero non divenne una grossa goccia di panna, colata giù dal cono gelato gigante, dopo di che si riscosse: basta baloccarsi con discorsi da adulti, quello era il momento di giocare al suo cartone animato preferito, Detective Conan!

S’intrufolò nella ressa sbucando in prima fila accanto al maresciallo Fenzi, così da analizzare da vicino la scena del delitto.

‒ “Il cattivo deve avere approfittato della controra, quando la piazza è vuota per il caldo, ma davvero nessuno ha visto niente?” ‒ chiese al carabiniere.

‒ “Non ci sono testimoni” ‒ rispose d’istinto il gendarme, poi abbassò lo sguardo e vide Marianna ‒ “e tu che ci fai qui? Via via, circolare, non è posto per bambini questo.”

‒ “Come avrà fatto il cattivo a fare tutto così in fretta? Forse con la cesta di un camion-gru, tipo quello di Franco, l’uomo dei pali del telefono.”

Il carabiniere si lisciò i baffi pensieroso. Marianna proseguì nelle sue riflessioni ad alta voce.

‒ “E gli zoccoli bianchi? Sono verdi d’erba in punta e c’è della terra sotto… ma Piero non li usava solo in gelateria?”

‒ “Mpff… lascia stare bambina, quello è lavoro per la scientifica.”

‒ “E soprattutto, cos’è quel giallo che ha macchiato i pantaloni chiari dal ginocchio in giù? Gelato?” ‒ si fece seria, poi s’illuminò ‒ “No… io credo che lo so!”

‒ “Insomma bimba, via, sparisci!” ‒ stizzì il maresciallo, che come tutti gli adulti non amava sentirsi porre domande cui non sapeva rispondere.

Decisa a seguire la sua pista, Marianna tornò verso il parchetto. Il cielo si era mezzo rannuvolato e nella luce opaca i brandelli di cielo dell’incipit iniziarono a cadere giù come foglie azzurre in autunno. Proseguì fino al bosco dietro la discarica, zona di ritrovo dei tossici del paese, dove scovò Andrea, vent’annni, seduto su un muretto diroccato.

‒ “Ciao” ‒ esordì la bimba ‒ “è morto Piero il gelataio.”

Per tutta risposta il ragazzo si strinse nella giacca di pelle nera: se sapeva qualcosa non lo diede a vedere.

‒ “Stai facendo il solito gioco? Sei tutto sudato…” ‒ proseguì Marianna, riflettendo che comunque il tanfo dei rifiuti oltre i pannelli di cemento copriva ogni altra cosa.

‒ “E’ l’unico che conosco.”

E detto fatto alzò al cielo un cerambicide grassottello, lo depose sul muretto e lo schiacciò. Un liquido giallastro colò viscoso sul mattone.

‒ “Vedi” ‒ chiosò Andrea ‒ “gli insetti sono animali onesti. Quando li spiaccichi tirano fuori ogni cosa, anche l’anima, mica si tengono tutto dentro come le persone…”

Marianna inorridì fissando il cadavere estroverso del coleottero.

‒ “Poverino…”

‒ “La quercia ne è piena.”

‒ “Devi essere salito fino in cima se ne hai raccolti così tanti. Sai che non ti ho mai visto arrampicarti?” ‒ notò la bambina indicando il barattolo di vetro pieno di cerambidici.

Andrea non rispose. Dal coleottero schiacciato continuò ad uscire linfa giallastra, tanto che attorno al muretto si era già formata una pozzanghera e in breve il liquido iniziò a ruscellare in strada.

Marianna balzò indietro e corse via. Si diresse verso la periferia, svoltò in via Roma e dopo aver raggiunto il civico 48, suonò il campanello con scritto Manfrin.

‒ “Marianna! Cosa fai in giro da sola?” ‒ chiese la signora Manfrin.

‒ “Oh, niente, sto giocando al detective Conan con Andrea. Devo farle una domanda signora. Suo marito è ammalato?”

‒ “Sì, bela, è a letto: s’è preso la bronchite.”

Tombola, pensò la bimba.

‒ “E lei signora è stata in casa oggi?” ‒ domandò ancora la bambina.

‒ “Avevo il turno di mattina, sono appena rientrata.”

L’onda di piena formata dal liquido giallo avanzava lungo il viale. Marianna si guardò intorno: la campagna in larghi tratti era già allagata e il livello della marea citrina continuava a salire; quando si congedò dalla signora Manfrin, già le arrivava alle caviglie.

I conti tornano, detective Conan, disse tra sé, poggiando di nuovo l’indice sulla tempia destra, Franco è ammalato.

Si avviò verso casa, ma ancora prima di raggiungere il parchetto, l’inondazione s’era gonfiata fino a lambirle la gola, tanto che la bambina dovette proseguire a nuoto. Il liquido giallo era tiepido, gradevole al tatto, e scorreva sulla pelle accarezzandola in modo più scivoloso di quanto non fosse solita fare l’acqua del mare. Forse per questo Marianna mise un piede in fallo e cadde a capofitto in quello strano brodo primordiale fatto di pensieri così immersi da togliere il fiato.

In fondo a tutte queste parole, rifletté, in fondo a tutta questa marea di pensieri dev’esserci una piana abissale… anche gli oceani, eh, anche gli oceani per quanto siano immensi, hanno un fondale su cui poggia l’infinito contenuto.

‒ “Non affiora mai, il fondale. Come fai a dirlo?” ‒ sussurrò una voce materna nella testa della bimba.

‒ “Beh, per davvero non lo so. Però immagino le parole e… lo dico” ‒ gorgogliò Marianna continuando ad affogare ‒ “Non so nemmeno cosa sia un infinito contenuto… perché me lo hai suggerito? In fondo, sono soltanto una bambina!”

‒ “In fondo” ‒ fece eco la voce, con un sussurro.

‒ “In fondo…” ‒ ripeté ancora Marianna sentendo i pensieri spegnersi in un sorriso.

Il corpo della bimba si fece molle e continuò ad andare giù, sempre più giù, sempre più giù, sempre più giù, scendendo con lentezza esasperante. Soltanto qualche riga dopo, nel nero buio come l’inchiostro degli abissi oceanici, toccò il fondale e si adagiò delicatamente su di esso. Se fosse stata ancora in grado di percepire il mondo esterno e avesse avuto a disposizione un’illuminazione adeguata, Marianna si sarebbe sorpresa a notare che il fondale era incredibilmente liscio e bianco, proprio come un foglio.

Soddisfatta, aprii la tendina File e cliccai Stampa. La mia fidata stampante a forma di batiscafo sputò quattro campioni di fondale oceanico ed io ne ricomposi i continenti alla deriva, impaziente di far leggere il nuovo racconto a mio marito.

‒ “Allora, che ne pensi?” ‒ chiesi qualche minuto dopo.

‒ “Bello, ma non capisco il titolo” ‒ disse Stefano.

‒ “Perché non l’hai ancora letto fino in fondo.”

‒ “Sì che l’ho letto tutto.”

‒ “No. Non lo vedi che continua?”

‒ “Lo sai che non mi piacciono questi giochetti” ‒ sbuffò Stefano ‒ “e resta il fatto che non vedo perché questo racconto ci rappresenti in modo particolare.”

‒ “Mi rappresenta: l’ho scritto io… e poi Marianna sono io da bambina.”

‒ “Ma il pronome era ci, mica ti. E allora, se devo pensare a una narrazione che ci rappresenti, mi sovviene qualcosa di più intersoggettivo, un logos che riesca ad accomunare le tensioni psichiche di tutti noi, intesi sia come esseri umani che come personaggi di racconti.”

D’istinto mi chiesi come potevo amare un uomo così odioso, sempre pronto a salire in cattedra a pontificare dall’alto del suo PhD in Psicologia e Scienze Cognitive. Tagliai corto, troppo frustrata per aver voglia di discutere. Inoltre, dovetti ammettere tra me e me, che le trame riecheggianti nel racconto, non erano in effetti così appropriate come m’erano sembrate mentre le scrivevo. Così provai a rileggermi, restando inceppata in alcune esagerazioni un po’ barocche ed ebbi l’impressione che il liquido giallo continuasse a fluire tra le righe annacquando la scrittura, davvero esondante rispetto alla pochezza della storia narrata. Non solo il racconto non ci rappresentava, ma neanche io mi sentivo più rappresentata dalle sue parole. Sospirai… ecco, avevo messo il dito nella piaga: sue parole, ovvero, non mie, non più.

Resistetti a stento all’impulso di accartocciare i fogli A4 che tanto mi avevano delusa e mi rifugiai in bagno per farmi una maschera viso anti-age rilassante all’argilla. Stesa la crema, mi accoccolai sullo sgabello e chiusi gli occhi, svuotando la mente. Dopo qualche minuto, sentii la pelle del volto fremere d’eccitazione nel levigarsi intensamente fino a liberarsi da stress, rughe, anni e impurità. Quando mi riscossi, il mio riflesso nello specchio mi sorprese: potevo avere sette o otto anni.

‒ “Ciao” ‒ disse Marianna.

‒ “Ciao” ‒ mi risposi.

‒ “Mi dispiace che non sono riuscita a finire di scoprire il colpevole. Era Andrea vero?”

‒ “Fa lo stesso” ‒ mi sorrisi rassicurante ‒ “tanto, secondo Stefano, il racconto è fuori tema o comunque non ci rappresenta.”

‒ “Ma non è vero! Ci stiamo somigliando così… così benissimo che quasi non si capisce più chi sono io e chi sono io!”

‒ “Hai ragione, ma proprio per questo Stefano ha colto nel segno: moltiplicando più volte lo stesso io non si ottiene un noi. Non hai studiato le tabelline?”

‒ “Uno per uno, uno. Uno per uno, uno. Uno per uno, uno…” ‒ convenne la bambina, il cui tono s’incupiva gradualmente parola per parola, finché gli occhi iniziarono ad inumidirsi.

Mi si spezzava il cuore a vedermi così triste, ma che potevo fare? Avevo avuto un’infanzia difficile, senza amiche, costretta a giochi e letture solitarie dalle oggettive circostanze della vita a Traviate, un paesino della pianura lombarda dove non nascevano bambini. Chissà… forse le esalazioni del Kong, il termovalorizzatore che svettava accanto al paese e vaporizzava i rifiuti di mezza Italia, avevano reso sterili le coppie, o forse, come mi ero convinta da bambina, in tempi di recessione nessuno voleva più figli e i neonati venivano usati come combustibile nell’inceneritore, quando scarseggiavano le favole o le ecoballe da raccontare. Restava il fatto che a Traviate ero una sorta di creatura marziana, un piccolo scherzo della natura nella grande messinscena di alienazione collettiva recitata dagli adulti. E, fatalmente, alla fine anch’io ero stata contaminata. Che possibilità di scampo potevo avere quando il destino mi veniva additato addirittura dal nome del paese? La realtà è il luogo in cui si coagulano le parole e non può essere altrimenti visto che se esistiamo dobbiamo occupare uno spazio e ciò implica il nostro coincidere con un corpo e un luogo. Le mie carni e il mio paese: è così che il cerchio si chiude. E’ così che le fantasie della mia infanzia erano state traviate e pian piano, senza accorgermene, ero diventata una donna adulta.

‒ “Mi spiace, Marianna” ‒ dissi con la voce umida di lacrime.

‒ “Perché?”

‒ “Tu non lo sai. Io non lo so. Nessuno lo sa. E non potrebbe essere altrimenti: non lo sappiamo perché parliamo, perché scriviamo, perché viviamo. Ecco, forse è proprio questo non sapere fatto di parole, spalmato sopra una fetta di panegirico per addolcire la pillola, che ci rappresenta, tutti.”

Marianna mi squadrò specchiandosi nella mia espressione perplessa, poi si strinse nelle spalle.

‒ “Dici delle cose che sembrano aria e… e volano nell’aria, tipo quando soffi un dente di leone” ‒ la bimba chiuse gli occhi e tacque per una manciata di secondi ‒ “Però dopo spariscono subito senza lasciare traccia, proprio come un suono.”

‒ “E’ per quello che le scrivo: verba volant, scripta manent” ‒ replicai, addolcendo le parole con un sorriso materno.

‒ “Dev’essere divertente!”

‒ “Cosa?”

‒ “Scrivere aria nell’aria… però è più divertente andare in altalena.”

‒ “Già…”

‒ “E anche se mi piace starti ad ascoltare quando parli strano che sembri l’amico giapponese di papà, mi piace di più il gelato. Vorrei tanto un cono panna e pistacchio… non me l’hai mica fatto mangiare nella storia, ma ho ancora la moneta!”

Ma quanto ero stronza?

D’istinto, decisi che dovevo rimaneggiare il racconto. Avrei potuto riportare in vita Marianna prendendo a prestito Gesù Cristo dal Vangelo. Eh, perché no?, mi dissi, ma niente resurrezioni alla Lazzaro, trama troppo pomposa e scontata. Meglio rifarsi alle religioni orientali, tipo buddismo o induismo, più ricche di spunti creativi. Ecco! Per effetto del liquido giallo, Marianna torna in vita reincarnandosi in un cerambicide… sì sì, mica male e… Nooo! Ebbi un moto di stizza non appena realizzai che quel lucido visionario di Kafka m’aveva già bruciato l’idea col suo Gregor Samsa.

Uscii dal bagno, più incerta che mai.

Forse, prendendo spunto dalla bibbia, nella pianura inondata, rimuginai, potrebbe apparire all’orizzonte un’arca che viene in salvataggio di Marianna. Potrei riempirla di personaggi, invece che di animali: la donna in ciabatte coi due emisferi in conflitto, Giacomo col ceffo sporto in avanti, la vedova derubata con la maglia extra-large di Baglioni, Giulio commercialista rampante senza dimora, la casa contadina, Gilberto e Luigi col loro amante diciottenne, il cornuto in rima, i due universitari Alex e Marco, Uh-Ruhr col suo fido maestro zen, Anna con l’ultimasperanza al capezzale del padre morente, il tipo malato di prurito ossessivo, i due vecchi innamorati Giuseppe e Adalgisa e così via, fino a stipare l’arca di esistenze possibili, di molteplici ed infiniti riflessi di noi.

Voglio vedere se Stefano avrà ancora il coraggio di criticarmi dicendo che questo non è un racconto che ci rappresenti, ghignai fiduciosa e mi diressi alla postazione computer per ritoccare il brano.

Un’ora dopo ero di nuovo pronta a sottoporre lo scritto alle critiche spietate di Stefano: stampai, gli porsi il malloppo e mi misi in attesa in silenzio. Riuscii a resistere dieci minuti, poi chiesi ansiosa.

‒ “Allora? Così è meglio no?”

‒ “Mmmm… si vede lontano un chilometro che è racconto raffazzonato.”

‒ “Perché?”

‒ “E’ scritto andando a caso.”

‒ “Non è vero, ma anche se fosse, allora rispecchia in modo fedele i casini della vita e di conseguenza non può che rappresentarci bene.”

‒ “Mah… sai che ti dico? Primo, che questi giochini letterari lasciano il tempo che trovano… dovresti rimetterti a scrivere qualcosa di serio: un romanzo di invasione, ad esempio. Secondo che comunque stai cercando l’araba fenice: non può esistere qualcosa che ci rappresenti tutti, semplicemente perché siamo tutti unici e irripetibili, quindi troppo diversi gli uni dagli altri.”

Decisi che stava dandomi contro per punto preso e che stavolta non gliel’avrei data vinta senza lottare.

‒ “Non so, Stefano… mi pare che esageri. E comunque l’essere troppo diversi è relativo: a ben vedere, non è escluso che si possano trovare più somiglianze che differenze addirittura tra un uomo e un asino.”

Mi guardò stranito al limite dell’offeso, aggiustandosi gli occhiali sul naso, un gesto tradiva una palese irritazione. Replicò con tono professorale, che non ammetteva repliche.

‒ “Una rappresentazione mentale è un simbolo cognitivo interno con proprietà semantiche che astrae la realtà esterna e istituisce di per sé uno scarto rispetto alla realtà stessa. Per questo motivo, se da un lato produciamo un sistema di norme e simbologie, costruendo realtà, dall’altro dobbiamo fare i conti con l’inverso, ovvero che nel contempo non siano piuttosto le norme e le simbologie, che nella società assumono connotazioni strutturate e sistematiche, a plasmare lo sviluppo dei soggetti a loro immagine e somiglianza.”

Accusai il colpo, ma per fortuna il silenzio calato sulle parole di Stefano fu addolcito dal pigolare del mio smatphone.

‒ “Scusa un attimo” ‒ dissi, felice che Giulia mi avesse finalmente risposto proprio in quel momento. Lessi l’sms, salivando di piacere: la cena per l’indomani al Prelibatezze Arcane era confermata.

‒ “Allora? Non mi…” ‒ iniziò a protestare Stefano con tono sarcastico, ma per fortuna anche il suo i-Phone vibrò e trillò proprio in quel momento.

‒ “Fai pure, così rispondo anch’io” ‒ convenni accomodante.

Rimbalzai il messaggio a Giulia e, con l’occasione, diedi pure un’occhiata ai like in calce al selfie che avevo postato all’ora di pranzo, al centro commerciale, durante il massaggio ayurvedico del giovedì. Stefano ci mise di più per espletare le incombenze, così rimasi per un po’ a guardarlo: il sole era calato e la stanza si era velata di penombra. Dovetti ammettere che il suo volto, illuminato a male pena dai cristalli del touch-screen, sfoggiava dei lineamenti maschi e sensuali. Sospirai sentendo un piacevole senso di calore salirmi dall’interno e guadai con più coraggio oltre i vetri della finestra: l’ultima neve, caduta lunedì, pian piano stava ormai sciogliendosi, ma non era difficile prevedere che anche stanotte saremmo andati sotto zero.

‒ “Hai ancora molto?” ‒ chiesi con voce muschiata ed arrendevole, dopo una decina di minuti.

‒ “Scusami… è Rutineau, ci sono novità per il paper sul JCS. Uno dei referee ha risposto in modo favorevole, ma ha chiesto una serie di modifiche” ‒ posò l’i-Phone e tornò a guardarmi ‒ “…cosa stavamo dicendo?”

‒ “Niente di importante… ti va se accendo il camino, per il dopo cena?” ‒ suggerii ammiccante, cinguettando il nostro segnale in codice.

Sorrise.

‒ “Sono già tutto un fremito, signora…”

Disposi a capanna alcuni tronchetti pressati e preparai la diavolina. In cerca di carta che attizzasse il fuoco più velocemente, appallottolai le pagine del racconto che avevo stampato e le sistemai alla base del tutto. Quando la carta prese fuoco, per un attimo mi parve di udire la mia voce bambina urlare spaventata. Povera Marianna, pensai, ma subito mi consolai pensando che l’inondazione di liquido giallo avrebbe sicuramente spento le fiamme, nel racconto, e che pertanto la piccola non correva alcun rischio di essere arsa viva.

Restai incantata a guardare i fogli trasformarsi in lingue di fuoco danzanti, con tonalità che sfumavamo dal giallo al rosso. Il calore mi si proiettò luminoso sul volto e nel rincorrersi dei chiaro-scuri dentro il camino immaginai di intravedere i fotogrammi del mio ultimo racconto, deludente sotto ogni aspetto. Mossa da uno slancio autocritico sincero, dovetti rassegnarmi e ammettere che non solo non avevo convinto Stefano, ma neanch’io ero davvero soddisfatta del mio operato. Le idee a sfondo biblico, poi, che avevo aggiunto a posteriori nell’illusione di poter migliorare il racconto, erano ancor più inconcludenti e pacchiane… eh, della serie, è proprio vero che spesso il rimedio è peggiore del male!

Solo quando il fuoco consumò le ultime righe dell’ultimo foglio compresi la verità. Restai folgorata dall’intuizione, come sottolineato dallo sguardo vitreo e fisso, dalla bocca semiaperta e dalla mano sospesa a mezz’aria in un gesto interrotto. Come avevo fatto a non rendermene conto? Il racconto era perfettamente riuscito e il mio stupore fu tale che continuai a fissare la base del camino per una decina di minuti. Nella cenere. Nella cenere polverosa era scritto il racconto che ci rappresenta tutti.