Marianna era di fronte a un bivio. Rimase per un po’ di tempo ferma, con l’indice posato sulla tempia destra e l’espressione indecisa. Guardò a destra, arricciò il naso e immaginò la gelateria che l’attendeva oltre l’angolo. Si leccò le piccole labbra, sorridendo, e quasi si decise a svoltare. Eppure, proprio quando Lelly e Kelly, le sue scarpette preferite, erano sul punto di lanciarsi in un galoppo rosa e luccicante, esitò. Spiò sulla sinistra e pensò all’altalena, al fruscio dei vestiti nell’aria: s’immedesimò a tal punto che udì il cigolio degli snodi metallici andare e venire nei timpani deliziati. Al solo rievocare l’emozione di sfiorare gli alberi, anche Lelly e Kelly tradirono un evidente trasporto lanciandosi in una breve teoria di piroette e saltelli sul posto.
Tormentata dal dubbio di un imperdonabile errore, Marianna iniziò a camminare in cerchio al centro del viale alberato, appena imbronciata. E’ vero che desiderava un gelato regale, con la sua immancabile corona di panna montata, ma d’altro canto la allettava pure l’idea di spericolati volteggi nel vuoto. Aggrottò la fronte e sbuffò, sedendosi sconfitta sull’orlo del marciapiede con le gambe incrociate. Consultò alcuni brandelli di cielo arsi dal sole di Luglio, poi volse di nuovo lo sguardo alle strade che la chiamavano, la interrogavano e la tentavano. La gelateria a destra e l’altalena a sinistra. La gola e il brivido, il gusto e l’emozione: eh, quella che le si presentava quel giorno era davvero la scelta più fondamentale dell’universo. Al suo ritorno, infatti, avrebbe potuto trovare la strada sbarrata o il ponticello crollato: e se fosse rimasta per sempre confinata a destra o a sinistra? E se avesse incontrato un drago, un’astronave aliena o uno stregone malvagio? Del resto, nella sua mente di bambina, tutto sarebbe stato possibile.
O meglio, tutto tranne andare in altalena mangiando un gelato: equilibrismo rischioso, foriero di panna e pistacchio tuffati a squagliarsi nell’erba, come aveva purtroppo imparato a sue spese. Eh, quella sì che sarebbe stata una tragedia, altro che draghi o dubbi amletici! Il senso pratico della bambina fece piazza pulita d’ogni sofisma letterario e Lelly e Kelly zampettarono allegre in direzione del parchetto oltre l’angolo. Giunta all’apertura dello steccato, si guardò intorno, ma stranamente il prato la salutò in silenzio: lo spazio giochi era deserto. Le scarpette restarono per qualche attimo immobili osservando perplesse l’altalena, finché Marianna non s’avvicinò con gli occhi sbarrati per toccare con mano l’orrore. Chi poteva aver straziato a quel modo il passatempo più amato dai bambini? L’altalena oscillava appena, senza vita, con l’asse per sedersi appeso in verticale ad una sola catena. Marianna tirò su col naso, toccò la catena superstite e s’incantò a studiare il gancio vuoto sul travetto orizzontale; poi accarezzò l’assenza degli anelli metallici e rabbrividì trovandola fredda quanto il marmo della tomba di nonno Michele. Ciononostante si riprese in un batter d’occhio: restava comunque in piedi l’opzione successiva, la “fase due”, ovvero che per magia la moneta da due euro si trasformasse in un cono panna e pistacchio; quindi con un’agile piroetta s’incamminò saltellante verso il gelataio.
In meno di tre minuti raggiunse la piazzetta su cui s’affacciava la gelateria I scream,gelati da urlo, trovandola piena di gente agitata e lampeggianti blu. Marianna seguì il moto delle grida stridule che salivano al cielo e trovò la sagoma di Piero, il gelataio, appeso al cono gelato gigante sopra l’insegna. Era la prima volta che vedeva il gelataio per intero, essendo troppo bassa per l’universo celato dal bancone, e la scoperta che l’addome obeso si puntellasse su gambe lunghe e sottili come cannucce da granita la lasciò a bocca aperta. Tale rivelazione fu però subito eclissata da un’altra ben più sconcertante: ciò che girava attorno al collo dell’uomo per appenderlo all’insegna era una fila di anelli metallici. Ecco dov’era finita la catena dell’altalena! La bambina si divertì a sfocare lo sguardo, finché Piero non divenne una grossa goccia di panna, colata giù dal cono gelato gigante, dopo di che si riscosse: basta baloccarsi con discorsi da adulti, quello era il momento di giocare al suo cartone animato preferito, Detective Conan!
S’intrufolò nella ressa sbucando in prima fila accanto al maresciallo Fenzi, così da analizzare da vicino la scena del delitto.
‒ “Il cattivo deve avere approfittato della controra, quando la piazza è vuota per il caldo, ma davvero nessuno ha visto niente?” ‒ chiese al carabiniere.
‒ “Non ci sono testimoni” ‒ rispose d’istinto il gendarme, poi abbassò lo sguardo e vide Marianna ‒ “e tu che ci fai qui? Via via, circolare, non è posto per bambini questo.”
‒ “Come avrà fatto il cattivo a fare tutto così in fretta? Forse con la cesta di un camion-gru, tipo quello di Franco, l’uomo dei pali del telefono.”
Il carabiniere si lisciò i baffi pensieroso. Marianna proseguì nelle sue riflessioni ad alta voce.
‒ “E gli zoccoli bianchi? Sono verdi d’erba in punta e c’è della terra sotto… ma Piero non li usava solo in gelateria?”
‒ “Mpff… lascia stare bambina, quello è lavoro per la scientifica.”
‒ “E soprattutto, cos’è quel giallo che ha macchiato i pantaloni chiari dal ginocchio in giù? Gelato?” ‒ si fece seria, poi s’illuminò ‒ “No… io credo che lo so!”
‒ “Insomma bimba, via, sparisci!” ‒ stizzì il maresciallo, che come tutti gli adulti non amava sentirsi porre domande cui non sapeva rispondere.
Decisa a seguire la sua pista, Marianna tornò verso il parchetto. Il cielo si era mezzo rannuvolato e nella luce opaca i brandelli di cielo dell’incipit iniziarono a cadere giù come foglie azzurre in autunno. Proseguì fino al bosco dietro la discarica, zona di ritrovo dei tossici del paese, dove scovò Andrea, vent’annni, seduto su un muretto diroccato.
‒ “Ciao” ‒ esordì la bimba ‒ “è morto Piero il gelataio.”
Per tutta risposta il ragazzo si strinse nella giacca di pelle nera: se sapeva qualcosa non lo diede a vedere.
‒ “Stai facendo il solito gioco? Sei tutto sudato…” ‒ proseguì Marianna, riflettendo che comunque il tanfo dei rifiuti oltre i pannelli di cemento copriva ogni altra cosa.
‒ “E’ l’unico che conosco.”
E detto fatto alzò al cielo un cerambicide grassottello, lo depose sul muretto e lo schiacciò. Un liquido giallastro colò viscoso sul mattone.
‒ “Vedi” ‒ chiosò Andrea ‒ “gli insetti sono animali onesti. Quando li spiaccichi tirano fuori ogni cosa, anche l’anima, mica si tengono tutto dentro come le persone…”
Marianna inorridì fissando il cadavere estroverso del coleottero.
‒ “Poverino…”
‒ “La quercia ne è piena.”
‒ “Devi essere salito fino in cima se ne hai raccolti così tanti. Sai che non ti ho mai visto arrampicarti?” ‒ notò la bambina indicando il barattolo di vetro pieno di cerambidici.
Andrea non rispose. Dal coleottero schiacciato continuò ad uscire linfa giallastra, tanto che attorno al muretto si era già formata una pozzanghera e in breve il liquido iniziò a ruscellare in strada.
Marianna balzò indietro e corse via. Si diresse verso la periferia, svoltò in via Roma e dopo aver raggiunto il civico 48, suonò il campanello con scritto Manfrin.
‒ “Marianna! Cosa fai in giro da sola?” ‒ chiese la signora Manfrin.
‒ “Oh, niente, sto giocando al detective Conan con Andrea. Devo farle una domanda signora. Suo marito è ammalato?”
‒ “Sì, bela, è a letto: s’è preso la bronchite.”
Tombola, pensò la bimba.
‒ “E lei signora è stata in casa oggi?” ‒ domandò ancora la bambina.
‒ “Avevo il turno di mattina, sono appena rientrata.”
L’onda di piena formata dal liquido giallo avanzava lungo il viale. Marianna si guardò intorno: la campagna in larghi tratti era già allagata e il livello della marea citrina continuava a salire; quando si congedò dalla signora Manfrin, già le arrivava alle caviglie.
I conti tornano, detective Conan, disse tra sé, poggiando di nuovo l’indice sulla tempia destra, Franco è ammalato.
Si avviò verso casa, ma ancora prima di raggiungere il parchetto, l’inondazione s’era gonfiata fino a lambirle la gola, tanto che la bambina dovette proseguire a nuoto. Il liquido giallo era tiepido, gradevole al tatto, e scorreva sulla pelle accarezzandola in modo più scivoloso di quanto non fosse solita fare l’acqua del mare. Forse per questo Marianna mise un piede in fallo e cadde a capofitto in quello strano brodo primordiale fatto di pensieri così immersi da togliere il fiato.
In fondo a tutte queste parole, rifletté, in fondo a tutta questa marea di pensieri dev’esserci una piana abissale… anche gli oceani, eh, anche gli oceani per quanto siano immensi, hanno un fondale su cui poggia l’infinito contenuto.
‒ “Non affiora mai, il fondale. Come fai a dirlo?” ‒ sussurrò una voce materna nella testa della bimba.
‒ “Beh, per davvero non lo so. Però immagino le parole e… lo dico” ‒ gorgogliò Marianna continuando ad affogare ‒ “Non so nemmeno cosa sia un infinito contenuto… perché me lo hai suggerito? In fondo, sono soltanto una bambina!”
‒ “In fondo” ‒ fece eco la voce, con un sussurro.
‒ “In fondo…” ‒ ripeté ancora Marianna sentendo i pensieri spegnersi in un sorriso.
Il corpo della bimba si fece molle e continuò ad andare giù, sempre più giù, sempre più giù, sempre più giù, scendendo con lentezza esasperante. Soltanto qualche riga dopo, nel nero buio come l’inchiostro degli abissi oceanici, toccò il fondale e si adagiò delicatamente su di esso. Se fosse stata ancora in grado di percepire il mondo esterno e avesse avuto a disposizione un’illuminazione adeguata, Marianna si sarebbe sorpresa a notare che il fondale era incredibilmente liscio e bianco, proprio come un foglio.
Soddisfatta, aprii la tendina File e cliccai Stampa. La mia fidata stampante a forma di batiscafo sputò quattro campioni di fondale oceanico ed io ne ricomposi i continenti alla deriva, impaziente di far leggere il nuovo racconto a mio marito.
‒ “Allora, che ne pensi?” ‒ chiesi qualche minuto dopo.
‒ “Bello, ma non capisco il titolo” ‒ disse Stefano.
‒ “Perché non l’hai ancora letto fino in fondo.”
‒ “Sì che l’ho letto tutto.”
‒ “No. Non lo vedi che continua?”
‒ “Lo sai che non mi piacciono questi giochetti” ‒ sbuffò Stefano ‒ “e resta il fatto che non vedo perché questo racconto ci rappresenti in modo particolare.”
‒ “Mi rappresenta: l’ho scritto io… e poi Marianna sono io da bambina.”
‒ “Ma il pronome era ci, mica ti. E allora, se devo pensare a una narrazione che ci rappresenti, mi sovviene qualcosa di più intersoggettivo, un logos che riesca ad accomunare le tensioni psichiche di tutti noi, intesi sia come esseri umani che come personaggi di racconti.”
D’istinto mi chiesi come potevo amare un uomo così odioso, sempre pronto a salire in cattedra a pontificare dall’alto del suo PhD in Psicologia e Scienze Cognitive. Tagliai corto, troppo frustrata per aver voglia di discutere. Inoltre, dovetti ammettere tra me e me, che le trame riecheggianti nel racconto, non erano in effetti così appropriate come m’erano sembrate mentre le scrivevo. Così provai a rileggermi, restando inceppata in alcune esagerazioni un po’ barocche ed ebbi l’impressione che il liquido giallo continuasse a fluire tra le righe annacquando la scrittura, davvero esondante rispetto alla pochezza della storia narrata. Non solo il racconto non ci rappresentava, ma neanche io mi sentivo più rappresentata dalle sue parole. Sospirai… ecco, avevo messo il dito nella piaga: sue parole, ovvero, non mie, non più.
Resistetti a stento all’impulso di accartocciare i fogli A4 che tanto mi avevano delusa e mi rifugiai in bagno per farmi una maschera viso anti-age rilassante all’argilla. Stesa la crema, mi accoccolai sullo sgabello e chiusi gli occhi, svuotando la mente. Dopo qualche minuto, sentii la pelle del volto fremere d’eccitazione nel levigarsi intensamente fino a liberarsi da stress, rughe, anni e impurità. Quando mi riscossi, il mio riflesso nello specchio mi sorprese: potevo avere sette o otto anni.
‒ “Ciao” ‒ disse Marianna.
‒ “Ciao” ‒ mi risposi.
‒ “Mi dispiace che non sono riuscita a finire di scoprire il colpevole. Era Andrea vero?”
‒ “Fa lo stesso” ‒ mi sorrisi rassicurante ‒ “tanto, secondo Stefano, il racconto è fuori tema o comunque non ci rappresenta.”
‒ “Ma non è vero! Ci stiamo somigliando così… così benissimo che quasi non si capisce più chi sono io e chi sono io!”
‒ “Hai ragione, ma proprio per questo Stefano ha colto nel segno: moltiplicando più volte lo stesso io non si ottiene un noi. Non hai studiato le tabelline?”
‒ “Uno per uno, uno. Uno per uno, uno. Uno per uno, uno…” ‒ convenne la bambina, il cui tono s’incupiva gradualmente parola per parola, finché gli occhi iniziarono ad inumidirsi.
Mi si spezzava il cuore a vedermi così triste, ma che potevo fare? Avevo avuto un’infanzia difficile, senza amiche, costretta a giochi e letture solitarie dalle oggettive circostanze della vita a Traviate, un paesino della pianura lombarda dove non nascevano bambini. Chissà… forse le esalazioni del Kong, il termovalorizzatore che svettava accanto al paese e vaporizzava i rifiuti di mezza Italia, avevano reso sterili le coppie, o forse, come mi ero convinta da bambina, in tempi di recessione nessuno voleva più figli e i neonati venivano usati come combustibile nell’inceneritore, quando scarseggiavano le favole o le ecoballe da raccontare. Restava il fatto che a Traviate ero una sorta di creatura marziana, un piccolo scherzo della natura nella grande messinscena di alienazione collettiva recitata dagli adulti. E, fatalmente, alla fine anch’io ero stata contaminata. Che possibilità di scampo potevo avere quando il destino mi veniva additato addirittura dal nome del paese? La realtà è il luogo in cui si coagulano le parole e non può essere altrimenti visto che se esistiamo dobbiamo occupare uno spazio e ciò implica il nostro coincidere con un corpo e un luogo. Le mie carni e il mio paese: è così che il cerchio si chiude. E’ così che le fantasie della mia infanzia erano state traviate e pian piano, senza accorgermene, ero diventata una donna adulta.
‒ “Mi spiace, Marianna” ‒ dissi con la voce umida di lacrime.
‒ “Perché?”
‒ “Tu non lo sai. Io non lo so. Nessuno lo sa. E non potrebbe essere altrimenti: non lo sappiamo perché parliamo, perché scriviamo, perché viviamo. Ecco, forse è proprio questo non sapere fatto di parole, spalmato sopra una fetta di panegirico per addolcire la pillola, che ci rappresenta, tutti.”
Marianna mi squadrò specchiandosi nella mia espressione perplessa, poi si strinse nelle spalle.
‒ “Dici delle cose che sembrano aria e… e volano nell’aria, tipo quando soffi un dente di leone” ‒ la bimba chiuse gli occhi e tacque per una manciata di secondi ‒ “Però dopo spariscono subito senza lasciare traccia, proprio come un suono.”
‒ “E’ per quello che le scrivo: verba volant, scripta manent” ‒ replicai, addolcendo le parole con un sorriso materno.
‒ “Dev’essere divertente!”
‒ “Cosa?”
‒ “Scrivere aria nell’aria… però è più divertente andare in altalena.”
‒ “Già…”
‒ “E anche se mi piace starti ad ascoltare quando parli strano che sembri l’amico giapponese di papà, mi piace di più il gelato. Vorrei tanto un cono panna e pistacchio… non me l’hai mica fatto mangiare nella storia, ma ho ancora la moneta!”
Ma quanto ero stronza?
D’istinto, decisi che dovevo rimaneggiare il racconto. Avrei potuto riportare in vita Marianna prendendo a prestito Gesù Cristo dal Vangelo. Eh, perché no?, mi dissi, ma niente resurrezioni alla Lazzaro, trama troppo pomposa e scontata. Meglio rifarsi alle religioni orientali, tipo buddismo o induismo, più ricche di spunti creativi. Ecco! Per effetto del liquido giallo, Marianna torna in vita reincarnandosi in un cerambicide… sì sì, mica male e… Nooo! Ebbi un moto di stizza non appena realizzai che quel lucido visionario di Kafka m’aveva già bruciato l’idea col suo Gregor Samsa.
Uscii dal bagno, più incerta che mai.
Forse, prendendo spunto dalla bibbia, nella pianura inondata, rimuginai, potrebbe apparire all’orizzonte un’arca che viene in salvataggio di Marianna. Potrei riempirla di personaggi, invece che di animali: la donna in ciabatte coi due emisferi in conflitto, Giacomo col ceffo sporto in avanti, la vedova derubata con la maglia extra-large di Baglioni, Giulio commercialista rampante senza dimora, la casa contadina, Gilberto e Luigi col loro amante diciottenne, il cornuto in rima, i due universitari Alex e Marco, Uh-Ruhr col suo fido maestro zen, Anna con l’ultimasperanza al capezzale del padre morente, il tipo malato di prurito ossessivo, i due vecchi innamorati Giuseppe e Adalgisa e così via, fino a stipare l’arca di esistenze possibili, di molteplici ed infiniti riflessi di noi.
Voglio vedere se Stefano avrà ancora il coraggio di criticarmi dicendo che questo non è un racconto che ci rappresenti, ghignai fiduciosa e mi diressi alla postazione computer per ritoccare il brano.
Un’ora dopo ero di nuovo pronta a sottoporre lo scritto alle critiche spietate di Stefano: stampai, gli porsi il malloppo e mi misi in attesa in silenzio. Riuscii a resistere dieci minuti, poi chiesi ansiosa.
‒ “Allora? Così è meglio no?”
‒ “Mmmm… si vede lontano un chilometro che è racconto raffazzonato.”
‒ “Perché?”
‒ “E’ scritto andando a caso.”
‒ “Non è vero, ma anche se fosse, allora rispecchia in modo fedele i casini della vita e di conseguenza non può che rappresentarci bene.”
‒ “Mah… sai che ti dico? Primo, che questi giochini letterari lasciano il tempo che trovano… dovresti rimetterti a scrivere qualcosa di serio: un romanzo di invasione, ad esempio. Secondo che comunque stai cercando l’araba fenice: non può esistere qualcosa che ci rappresenti tutti, semplicemente perché siamo tutti unici e irripetibili, quindi troppo diversi gli uni dagli altri.”
Decisi che stava dandomi contro per punto preso e che stavolta non gliel’avrei data vinta senza lottare.
‒ “Non so, Stefano… mi pare che esageri. E comunque l’essere troppo diversi è relativo: a ben vedere, non è escluso che si possano trovare più somiglianze che differenze addirittura tra un uomo e un asino.”
Mi guardò stranito al limite dell’offeso, aggiustandosi gli occhiali sul naso, un gesto tradiva una palese irritazione. Replicò con tono professorale, che non ammetteva repliche.
‒ “Una rappresentazione mentale è un simbolo cognitivo interno con proprietà semantiche che astrae la realtà esterna e istituisce di per sé uno scarto rispetto alla realtà stessa. Per questo motivo, se da un lato produciamo un sistema di norme e simbologie, costruendo realtà, dall’altro dobbiamo fare i conti con l’inverso, ovvero che nel contempo non siano piuttosto le norme e le simbologie, che nella società assumono connotazioni strutturate e sistematiche, a plasmare lo sviluppo dei soggetti a loro immagine e somiglianza.”
Accusai il colpo, ma per fortuna il silenzio calato sulle parole di Stefano fu addolcito dal pigolare del mio smatphone.
‒ “Scusa un attimo” ‒ dissi, felice che Giulia mi avesse finalmente risposto proprio in quel momento. Lessi l’sms, salivando di piacere: la cena per l’indomani al Prelibatezze Arcane era confermata.
‒ “Allora? Non mi…” ‒ iniziò a protestare Stefano con tono sarcastico, ma per fortuna anche il suo i-Phone vibrò e trillò proprio in quel momento.
‒ “Fai pure, così rispondo anch’io” ‒ convenni accomodante.
Rimbalzai il messaggio a Giulia e, con l’occasione, diedi pure un’occhiata ai like in calce al selfie che avevo postato all’ora di pranzo, al centro commerciale, durante il massaggio ayurvedico del giovedì. Stefano ci mise di più per espletare le incombenze, così rimasi per un po’ a guardarlo: il sole era calato e la stanza si era velata di penombra. Dovetti ammettere che il suo volto, illuminato a male pena dai cristalli del touch-screen, sfoggiava dei lineamenti maschi e sensuali. Sospirai sentendo un piacevole senso di calore salirmi dall’interno e guadai con più coraggio oltre i vetri della finestra: l’ultima neve, caduta lunedì, pian piano stava ormai sciogliendosi, ma non era difficile prevedere che anche stanotte saremmo andati sotto zero.
‒ “Hai ancora molto?” ‒ chiesi con voce muschiata ed arrendevole, dopo una decina di minuti.
‒ “Scusami… è Rutineau, ci sono novità per il paper sul JCS. Uno dei referee ha risposto in modo favorevole, ma ha chiesto una serie di modifiche” ‒ posò l’i-Phone e tornò a guardarmi ‒ “…cosa stavamo dicendo?”
‒ “Niente di importante… ti va se accendo il camino, per il dopo cena?” ‒ suggerii ammiccante, cinguettando il nostro segnale in codice.
Sorrise.
‒ “Sono già tutto un fremito, signora…”
Disposi a capanna alcuni tronchetti pressati e preparai la diavolina. In cerca di carta che attizzasse il fuoco più velocemente, appallottolai le pagine del racconto che avevo stampato e le sistemai alla base del tutto. Quando la carta prese fuoco, per un attimo mi parve di udire la mia voce bambina urlare spaventata. Povera Marianna, pensai, ma subito mi consolai pensando che l’inondazione di liquido giallo avrebbe sicuramente spento le fiamme, nel racconto, e che pertanto la piccola non correva alcun rischio di essere arsa viva.
Restai incantata a guardare i fogli trasformarsi in lingue di fuoco danzanti, con tonalità che sfumavamo dal giallo al rosso. Il calore mi si proiettò luminoso sul volto e nel rincorrersi dei chiaro-scuri dentro il camino immaginai di intravedere i fotogrammi del mio ultimo racconto, deludente sotto ogni aspetto. Mossa da uno slancio autocritico sincero, dovetti rassegnarmi e ammettere che non solo non avevo convinto Stefano, ma neanch’io ero davvero soddisfatta del mio operato. Le idee a sfondo biblico, poi, che avevo aggiunto a posteriori nell’illusione di poter migliorare il racconto, erano ancor più inconcludenti e pacchiane… eh, della serie, è proprio vero che spesso il rimedio è peggiore del male!
Solo quando il fuoco consumò le ultime righe dell’ultimo foglio compresi la verità. Restai folgorata dall’intuizione, come sottolineato dallo sguardo vitreo e fisso, dalla bocca semiaperta e dalla mano sospesa a mezz’aria in un gesto interrotto. Come avevo fatto a non rendermene conto? Il racconto era perfettamente riuscito e il mio stupore fu tale che continuai a fissare la base del camino per una decina di minuti. Nella cenere. Nella cenere polverosa era scritto il racconto che ci rappresenta tutti.
Jihan ha detto:
questa tornata è sorprendente (e pensare che nelle intenzioni dei balenotteri doveva essere “rilassante”, “defatigante” ahaha)
ripasso eh, ritorno
libus ha detto:
Ricchezza. Ce n’è tanta qui dentro. Fantasia, sogno ma anche realtà, un po’ tutte le sfumature che appartengono alla vita e quella che sembrava mancare arriva in fondo, con quel riconoscerci tutti polvere. L’ho trovato vivo e toccante a tratti, con qualche lungaggine (sì, ma chi se ne frega, dai) e tanta umanità. E ha il merito supplementare d’essere fresco, scritto in diretta, per l’occasione.
Insomma cara AI (al femminile, lo dici tu e siccome il racconto è di quelli sinceri non credo tu ti metta a fregarci con il cambio di sesso) scrivi fluido e sei piena di tante cose.Se questo racconto somiglia a te prima che a tutti noi, puoi stare tranquilla, hai una bella luce, sei generosa e rassicurante senza esserlo sempre e comunque. (si si deve parlare esclusivamente del racconto senza le considerazioni sulle somiglianze, ripeto, mi è piaciuto, mi ha riempito con il suo brio e la sua gioia di vivere.)
mirimettoingioco ha detto:
Grazie!!! 🙂 E ammetto che sì: almeno di parole sono molto ricca! 🙂
ocramocra ha detto:
Si … mi sono divertito a seguire il volo del passero da un albero all’altro, a guardare il topolino correre a scatti fermandosi all’improvviso per annusare movendo i baffi, a vedere Alice divenire adulta e intuire che Anna è sopravvissuta e pensare Wendy come una femmina e …
bella scrittura scorrevole e dolce avvirgolata come si deve … se ti somiglia? Penso che ogni cosa possa somigliarci basta girarla un po’ di qua o un po di la e il gioco è fatto
brava!
mirimettoingioco ha detto:
Grazie anche a te! Alice e Wendy sono due eroine della mia infanzia, ma poi crescendo incroci per strada Gregor Samsa e il pasticcio è bell’e fatto! 🙂
massimolegnani ha detto:
adoro il cinismo dei bambini:” era la prima volta che vedeva il gelataio per intero” (e stiamo parlando di un impiccato!)
per il resto ripasserò dopo una lettura più attenta, c’è molta carne al fuoco, forse troppa.
ml
mirimettoingioco ha detto:
Quando faccio la carne ai ferri se è troppa e ne avanza, poi il giorno dopo da brava cuoca la riscaldo al vapore ed è buona come appena tirata via dal fuoco!
🙂
ggianluiigi ha detto:
Io, che il racconto che avevo scelto per rappresentarmi qui, dopo una settimana già non mi rappresentava più, sorrido (per adesso) al suggerimento del marito professore che auspica un logos universale capace di comprendere tutte le singole individualità in una sorta di psiche collettiva.
La carne al fuoco è molta, ha ragione ml. Ripasserò anche io, a dopo AI
mirimettoingioco ha detto:
Ma poi si contraddice o qualcosa di simile perché per punto preso gli piace stuzzicarmi e allora se ne sce con l’idea che “non può esistere qualcosa che ci rappresenti tutti, semplicemente perché siamo tutti unici e irripetibili, quindi troppo diversi gli uni dagli altri”!!!
righe orizzontali ha detto:
Io invece sono perplessa e quasi quasi mi viene da parteggiare per Stefano. In questo racconto mi perdo fra i mille rivoli, ritorni, temi, certezze, ripensamenti e non riesco a trovare omogeneità. Non che sia obbligatoria, ma se trovo una scia di fondo, poi mi so orientare. Qui, invece, vago sperduta e devo capire se è un bene o un male. Ritornerò anch’io quando l’avrò capito.
mirimettoingioco ha detto:
Oltre a Wendy e Alice, un altro mio grande eroe da bambina era Pollicino tanto che spesso giravo coi sassolini in tasca e giocavo a seminarli per non finire sperduta: se vuoi puoi provarci anche tu, magari funziona!! 🙂
righe orizzontali ha detto:
Magari si! O magari mi perdo definitivamente nel bosco e capisco che vagare nel vuoto, ogni tanto, non può che farci bene!
malosmannaja ha detto:
beh, intanto ha ragione Jihan: in questa tornata vanno per la maggiore racconti piuttosto lunghetti, il che non mi dispiace per nulla…
: ))
resta il fatto però che, come sempre, non è tanto la lunghezza o la stringatezza in sé a fare di un racconto un *buon* racconto, ma l’organicità dell’opera intesa come armonia e coerenza della trama. e qui – chiedo venia: so bene che i paragoni sono antipatici, ma ne ho bisogno come esempio pratico per spiegarmi – devo dire che “sono ancora vivo” altro brano corposo di qualche giorno fa, possiede una struttura e una compattezza di gran lunga superiore. ergo, mi perdoni l’autore (autrice?), ma se avesse riletto due o tre volte il racconto daccapo, magari avrebbe trovato il modo di renderlo più fruibile senza snaturarne troppo la materia.
ok, preambolato a dovere, veniamo ai lati positivi: intrigante la storia di Traviate e della doppia contaminazione subita dalla protagonista nel senso che sia le parole (il nome del paese) che il passare del tempo le *traviano* la vita; buono l’uso dei dialoghi; riuscita l’inquietudine di sottofondo che in qualche modo permea il brano come il liquido giallo. e passo ai lati negativi: nonostante qualche buona trovata (quella del gelataio già notata da massimoleganani) il personaggio della bambina è largamente improbabile e “cinematografico”; troppi slanci narrativi divergenti creano un effetto straniamento che alla lunga risulta odioso e si rischia di non fare tesoro della saggezza popolare quando ammonisce “chi troppo vuole nulla stringe”; la figura del marito (e sia chiaro che non lo dico per difendere i maschietti) è molto appiattita e piuttosto infantile, con l’aggravante che suona artificiosa poiché viene *usata* solo per fungere da antagonista e far procedere la trama. e qui mi fermo anche se ci sono parecchie altre cosette che non mi convincono (ma è anche normale, vista l’abbondanza di testo) e comunque credo l’autrice abbia già abbastanza su cui riflettere ma soprattutto non vorrei che finissimo per scoraggiare i nuovi essendo troppo severi (e comunque sia chiaro che tutto ciò che ho scritto qui è detto *dal basso all’alto* e non viceversa, siccome che – tengo a precisarlo anche per chi non mi conosce bene – sono nano)
: ))
mirimettoingioco ha detto:
Non capisco il senso della tua ricerca di “organicità”… già da come suona la parola non senti che è una cosa artificiosa? Ma la vita davvero ti sembra brillare per organicità?!? 🙂 A me mi (rafforzativo) sembra proprio il contrario e comunque non mi piacciono per nulla i racconti che finiscono come iniziano, girando attorno a una singola idea fondo. Infine grazie del consiglio, ma i miei racconti sono già abituata a rileggerli non “due o tre” ma decine di volte!!! E difficilmente, anche se è bello che sembri l’esatto contrario, lascio qualcosa al caso 🙂 🙂
malosmannaja ha detto:
ti chiedo scusa, il senso del mio dire di “rileggere due o tre volte il racconto” era più una frase fatta *buffa* che una cosa da intendesi alla lettera.
: ))
massimolegnani ha detto:
ho riletto. Mi è rimasta l’impressione di mancanza di unicità del brano a cui non trovo un centro focale. La parte più valida, a mio parere è il giallo, sia nella componente di “poliziesco” che in quella misteriosa di marea che sale. Avrei sfoltito sia l’incipit con la bambina nel ruolo di asino di buridano, sia la lunga parte filosofico-dialogante finale sul senso della scrittura e dei legami affettivi mentre avrei insistito nel corpo centrale: la bambina che vede (giustamente) la vita come un gioco e gioca a svolgere le indagini mostrando acume e cinico candore, mescolando fumetti e realtà, è decisamente azzeccata e coinvolgente.
ml
mirimettoingioco ha detto:
Malosmannaja cercava “organicità”, tu un “centro focale” che è ovvio che non c’è perché mi sono immedesimata in un percorso cha va da un punto di partenza a un punto di arrivo. La mia è una scrittura bambina, magari infantile, ma proprio per questo non gli interessa stare seduta al tavolino nella piazza al centro del paese, deve correre da un capo all’altro dei pensieri e scoprirsi lungo la strada 🙂
tempodiverso ha detto:
concordo sulla mancanza di uniformità del brano. credo che questo sia dovuto all’accostamento della prima parte che, solo a lettura inoltrata, poi risulta essere la pagina scritta dalla donna e la parte successiva. forse il saperla da subito ‘racconto’ nel ‘racconto’ avrebbe potuto eliminare la disomogeneità. di questa prima parte mi è piaciuta la descrizione della difficoltà della scelta di Marianna e in modo particolare la vivace rappresentazione motoria delle sue scarpette-pensiero, per il resto ci sono troppe cose che non hanno pio un seguito: Franco, Andrea, i coleotteri, Gregor e quindi bene ha fatto la donna a bruciare i fogli 🙂
salvo invece la marea gialla, che invischia la bambina-donna e la trascina al fondo, come se la scrittura stessa di quelle pagine avesse dato l’avvio a questa esplorazione, un ecoscandaglio per mettere in rilievo il fondo, quello che resta sempre nascosto. Il “ci” del titolo trova poi giustificazione in quella parte in cui ci siamo tutti, personaggi inventati, nomi veri come le molteplici sfaccettature che possono rappresentare un individuo, ma anche come tutti i topoi possibili in cui poter classificare l’umanità restringendo così la diversità, alla ricerca di un patrimonio di esperienze collettivo.
alla fine tutto si risolve nell’unico modo possibile, che nasce molto probabilmente dalla constatazione del destino di polvere, comune a fogli e umani: dare la parola al corpo.
mirimettoingioco ha detto:
Eh, sì, sarebbe comodo “sapere tutto da subito”, ma nella vita non lo sappiamo mica prima cosa viene dopo!!! 🙂 Comunque condivido il tuo ragionamento sul “ci” e grazie per aver citato la marea gialla, che anche per come mi sono immaginata io le cose ha un ruolo importante. Andrea dice: “Gli insetti sono animali onesti. Quando li spiaccichi tirano fuori ogni cosa, anche l’anima, mica si tengono tutto dentro come le persone…” e poi in fondo all’oceano giallo c’è un fondale “incredibilmente liscio e bianco, proprio come un foglio” 🙂
scrittorucolo ha detto:
Sapete cosa ho notato? Ke anke nel racconto precedente c’era questa cosa dello specchiarsi adulto-a e bambino-bambina e ke anke nel racconto sulla psicosi la voce che narra parte da quando era bambino x riscriversi nel riflesso da adulto… Quindi tirando le somme per trovare qualcosa ke ci rappresenti sembra ke molti abbiano sentito il bisogno di tornare indietro a quella età in cui ci sono – maschere e + spontaneità 🙂 Mi sbaglio? Poi il racconto mi è proprio piaciuto tanto e + ke disorganico ho sentito come ke il concetto da espirmere fosse in continuo divenire e ke il percorso di scoperta per certi versi anke terrificante ke porta alla povere, sia stato raccontato in presa diretta: dall’inizio rassicurante da favola per bambini, alla sterzata ke fa secco il gelatio, all’anima ke è il liquido giallo, alla resa dei conti tra io bambino e io adulto, poi tra personaggio-personaggi e scrittore e alla fine anke tra io adulto e io adulto. Mi sa ke esco smarrito come x il flusso di coscienza stroboscopico a lampi e flash del racconto precedente e ke tutto queste emozioni-riflessioni mi sono utilissimissime 🙂 🙂 🙂
mirimettoingioco ha detto:
Ma da dove sbuchi fuori, Scrittorucolo!!! Nascosto dietro questa scrittura da telefonino c’è davvero qualcosa di smart-phone 🙂 Grazie di cuore di queste tue intuizioni: mi hai colpita. E vorrei aggiungere altro, ma davvero si è fatto tardi e se domattina alle sette voglio essere sveglia è ora che vada a nanna! 🙂
ggianluiigi ha detto:
Penso che il maggior pregio di questo autore in questo brano, sia la gran mole di lavoro svolta, tanto più apprezzabile perché trattasi di un racconto scritto per l’occasione. all’impegno certamente encomiabile, (mi verrebbe da dire alla dedizione) non corrisponde però (o meglio non sempre) un altrettanto encomiabile risultato, per essere precisi è un brano controverso, o forse che si presta a molteplici letture, e io sono appena capace di darne una sola.
Ha una sua ottima coerenza interna che rende ben riuscito il passaggio dal livello narrativo a quello metanarrativo, brv AI, non deve essere stato affatto semplice. Il piano storico e quello dell’attualità narrativa si succedono nel corso della scrittura senza creare problemi o dubbi interpretativi nel lettore, mentre la scrittura intesa come “atto di scrivere”, fa sapientemente da sfondo a tutta la vicende storica, anticipando o suggerendo già l’esistenza di un secondo piano temporale, ovvero quello del presente (che cronologicamente arriva dopo) con i dubbi e le perplessità e i telefonini il caminetto, il marito e tutto il resto
La scrittura, è infatti l’altra protagonista di questo brano, l’atto di scrivere’ “lo scrivere” per capirci meglio, assume quasi una funzione antropologica nella ricerca di quell’elemento comune capace di rappresentarCI in quanto esseri umani, pretesa mica da poco.
Come interpretare alla fine quei fogli bruciati? Da un lato il finale potrebbe richiamarci alla nostra misera condizione di animali parlanti condannati a parlare anche per dire che parlare è inutile, dall’altro ci consola al pensiero che un racconto bruciato è (rimane) pur sempre un bel racconto vivo e vegeto, e il fuoco distruttore annientato e sconfitto, finisce inglobato in quel racconto che voleva distruggere e ne diventa a pieno titolo l’ultimo “personaggio in ordine di apparizione”
La scrittura sconfigge il fuoco dunque? Non lo so, io opterei per “la misera condizione di parlanti”
Fin qui secondo me un ottimo lavoro, e solo un ottimo lavoro infatti poteva rendere coerente e omogenea una struttura così complessa con un alto coefficiente di difficoltà.
Se non che, l’odierna AI è un autentica ingorda, 🙂 è una che apre il frigorifero (magari di notte) afferra di tutto, assaggia, da dei morsi qua e là senza sapersi mai decidere (esattamente come la bambina del racconto, che poi è lei stessa). Il marito per esempio propone una questione cruciale che rimane là, invischiata nei troppi rivoli di questo racconto. Anche l’indagine della bambina, ben condotta, pare sfumare senza lasciare tracce (tracce importanti nell’economia del racconto intendo) Il liquido giallo che nell’intenzione dello scrittore doveva essere quel medium capace di tenere uniti i piani narrativi (ottima come idea) finisce per sbiadire, come diluito nella grandezza di questo lavoro.
Troppe cose secondo me sono state aperte e lasciate là, “dimenticate” tra le pieghe di un racconto che fatica a decollare per le troppe zavorre che lo appesantiscono.
Il mio suggerimento (se posso) è quellodi far diventare questo racconto qualcosa di più “importante” ampliandolo a partire da tutti quegli spunti che forse per mancanza di tempo non sono stati qui sviluppati.
mirimettoingioco ha detto:
Mamma mia, grazie!!! La gran mole di lavoro svolta è soprattutto tua in questo commento, io più che lavorare mi sono soprattutto divertita a scribacchiare non più di cinque paginette 🙂 Sul percorso narrativo contro-verso e in salita alla ricerca di una meta narrativa che sia anche metanarrativa e che “ci” rappresenti davvero tutti, credo che hai ragione. Sommando il tuo commento a quello Scrittorucolo di più non potrei chiedere!! Infine, il fatto che hai notato che più di una cosa sfuma (!!!) senza lasciare tracce (la mia immagine bambina, il liquido giallo e troppe cose) mi conforta perché è proprio ciò che mi ero proposta di ottenere a margine dell’andare in fumo dei fogli della storia incenerita dove pure l’io narrante oltre ad avere la mia voce in carne ed ossa è nel contempo un personaggio del racconto!
Jihan ha detto:
la cosa che mi ha colpito di più è il modo in cui l’AI ha interpretato il tema; quel ‘ci’ rappresenti è inteso come rappresenti ‘noi’ che nella progressione narrativa riguarda prima la voce narrante e i suoi stati dell’io (la bambina, l’adulta), poi la coppia fino a comprendere tutti gli autori di questo collettivo incarnati nei propri racconti (quelli delle tornate precedenti) e i loro personaggi. Mi pare inutile ripetere quanto detto fin’ora da chi mi ha preceduto, visto che concordo con molte delle notazioni e dei suggerimenti, ma credo che i limiti di questo brano siano anche i suoi pregi, perché la tanta, troppa roba che c’è qui se da una parte immobilizza il racconto in un dall’altra mostra tutta la poliedricità dell’AI. la sua versatilità. L’AI persona, intendo.
Ho un’idea della rassomiglianza autore/racconto lontana da qualsiasi autobiografia, da qualsiasi aperto investimento personale; di più: credo che la rassomiglianza possa vedersi dopo, a racconto compiuto, che non sia volontaristica e che quelli che a sto giro hanno deciso di raccontar-si intenzionalmente hanno coraggio.
mirimettoingioco ha detto:
Grazie Jihan, dici una cosa molto saggia e infatti ricordo un aforisma che recita più o meno così: curioso come una salita guardata dall’alto, una volta che sei arrivato in cima, somigli così tanto a una discesa!! 🙂 🙂 Quindi, per assonanza, sono proprio convinta che tu abbia ragione quando affermi che tante cose di questo brano possano essere limiti o pregi a seconda della prospettiva del soggetto che li osserva.
righe orizzontali ha detto:
Anche io ho riletto e mi trovo d’accordo soprattutto con le annotazioni di ml. Penso invece che Malos sia troppo severo (ma sei sempre così??). Aggiungo che i tanti spunti interessanti, il giallo, la curiosità ingenua di Marianna bambina, la spontaneità autocritica di Marianna adulta, il contrapporsi del marito perfettino, quasi si perdono nell’enorme flusso del racconto e rischiano di diventare conflittuali nell’economia di una lettura che cerca, appunto, un centro focale.
Lo asciugherei eliminando un paio di filoni.
Ah…sono Stefania, se vi va, chiamatemi Stefi e non righe. Grazie.
Jihan ha detto:
Stefi
io penso che Malos ha ragione da vendere e che dice cose che più o meno pensiamo/sentiamo in molti. Mai scambiare per severità ciò che è solo premura, per piacere.
Una cosa è certa: questa tornata è pericolosissima per la salvaguardia dell’antica regola (a cui io tengo molto) che dice che qui si commentano sempre e solo i brani e non gli autori.
righe orizzontali ha detto:
Hai ragione Jihan, accolgo il tuo suggerimento su premura e severità. Tornata rischiosa, è vero, ma anche molto affascinante, a me sta piacendo molto. Sono solo al mio secondo giro, ma ho ben chiara l’antica regola.
E…grazie per avermi chiamata Stefi!
massimolegnani ha detto:
ji, hai individuato il rischio: già in condizioni normali ogni scritto è specchio, più o meno volontario, di chi scrive. Qui (in questa tornata) dove per comune scelta scellerata ogni autore presenta parole che gli siano bandiera, è evidente che il pericolo che paventi è elevato all’ennesima potenza. A questo aggiungi lo sforzo del lettore di non ri-conoscere l’autore in parole che magari già si sono lette. Eppure, nonostante o forse grazie a queste difficoltà, ne sta venendo fuori un giro davvero affascinante.
ciao
ml
Jihan ha detto:
ciao Tarlo, concordo sulla scelleratezza, i balenotteri la sanno lunga.
.però a me non mi passa nemmeno per l’anticamera del cervello di fare la gnorri, tipo la madre di Giuni Russo che canta miamadre nonlodevesapere, nonlodevesapere, nonlodevesapere 🙂
Lapo Orage ha detto:
Ci sarebbero tante cose da dire, ma a volte mi basta pensarle per essere più vivo quindi non posso che ringrazione l’autore del brano e scusarmi se scrivo solo poche righe. Però, una cosa mi ha proprio colpito, quando subito dopo il discorso sulla società che plasma i soggetti a loro immagine e somiglianza – una interazione reciproca, simile a quella tra gli autori e i loro personaggi – i due protagonisti si perdono dietro ai loro telefonini “salivando” come il cane di Pavlov al trillare del campanello. Meno sorprendente e spiazzante, invece, la verità che prende la forma della cenere nel finale.
mirimettoingioco ha detto:
A me piaceva anche l’idea della polvere-cenere: calzava così a pennello anche per i riferimenti precedenti alla Bibbia e perché mi sono detta che era un buon punto di incontro tra noi, le nostre parole e i personaggi che siamo o non siamo. Però hai ragione, il riflesso condizionato da telefonino mi ha lasciata con un groppo allo stomaco pure a me già mentre lo scrivevo…
Alisa ha detto:
non ho letto tutti i commenti quindi è facile che ripeta cose già dette: ho fatto fatica ad arrivare in fondo alla lettura e me ne è servita una seconda che…mi è costata altrettanta fatica. Non perché il testo non sia scritto bene, anzi , è scorrevole ma la storia manca del centro. Da quello che ho capito, la storia è strutturata tipo scatole cinesi: nella prima c’è la bambina e il gelataio, contenuta nella scatola della scrittrice che cerca una storia che LA rappresenti ( e troviamo Marianna nello specchio).Questi due segmenti vanno a far luce sul rapporto di coppia (il racconto che CI rappresenti), per poi estendersi a considerazioni ontologiche : tutti siamo cenere. Purtroppo questi nuclei sembrano mancare di raccordo e si fatica a passare dall’uno all’altro, pare quasi di trovarsi su un’altalena che fa venire il mal di mare. Un particolare: nella mitologia greca c’è una correlazione tra il gioco dell’altalena e l’impiccagione.
mirimettoingioco ha detto:
Mi dispiace davvero e non sto scherzando o facendo sarcasmo!!! Mi dispiace davvero per Alisa e per buona parte di coloro che qui hanno commentato perché l’idea che qualcuno sia costretto a leggere (e addirittura a rileggere!) un mio racconto e provi un senso di fatica invece del piacere di leggere, ovvero che tragga emozioni negative e che in qualche modo si sforzi per arrivare in fondo per “dovere” mi fa proprio stare male. Nello specifico del tuo commento, mi ero immaginata più un percorso a tappe che una struttura tipo scatole cinesi e in questo percorso il “rapporto di coppia” non mi interessava in modo particolare: trovavo più interessante il “rapporto di scrittura” tra noi e i nostri personaggi. Sono cose che ho già spiegato in risposta ai commenti di altri autori, che come specificavi all’inizio del tuo commento non hai avuto tempo di leggere… ma nel caso sono ancora tutti qui 🙂
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ocramocra ha detto:
… ed ecco, malos, è ora che io possa sorprendermi di ciò che leggo mentre tu elabori dettagli per immaginarne l’autore; chi otterrà maggiore soddisfazione in questo processo cognitivo nessuno lo sa. Posso dirti però, che nell’attesa della sorpresa provo grande tensione, quasi pari al trattenere l’orgasmo sfiorandone l’apice ripetutamente.
Ho potuto quindi sorprendermi piacevolmente sapendo che mister kappa non è solo un prolisso emettitore di segmenti pungenti e di difficile gestione, ma è capace di scrivere con surreale acutezza tanto da poterlo paragonare all’assurdità delle immagini di Dalì
Stefi ha portato in scena un dilemma intimo e lacerante cercando il contrasto del nero sul bianco, lasciando impronte sulla neve fresca quasi a sottolineare “il senso di stefi per la neve”.
Cecil ha lasciato che entrassimo nel suo cervello per poter osservare le scie luminose dei processi neuronali che trasportavano pensieri sparsi, ma regolati da un universo che le appartiene e che ha voluto svelarci.
Malos ha dipinto una favola dipinta di giallo limone intenso che c’ha lasciato intendere pulsioni infantili forse ancora oggi vive e pulsanti, legando quell’intima fanciullezza alla sterile estraneità adulta e suggerendo che, come per la fenice, tutto ricomincerà di nuovo.
Gianluigi, che credevo diplomato in ragioneria, invece ha fatto capire come la potenza di un sogno possa quasi sfiorare la realtà, portando una creatura misteriosa che abita dentro noi, una sirena a sfiorare la superficie liquida dell’iride.
Libus ha affermato con sapienza la vera ragione della vita, il suo motore … l’affetto e l’amicizia.
Massimolegnani, se possibile, m’ha sorpreso perché conoscendolo non avrei mai immaginato fosse capace di dipingere anche con la sinistra, e così bene da far sentire il peso di un destino indicibile insegnandoci il rispetto.
Jihan m’ha lasciato senza fiato, ma più che per la carnale composizione di un’oscena pulsione, per una danza mozzafiato, letta con forte coinvolgimento e dove lo sguardo è l’unica parola dell’anima, dove lo sguardo lacera il buio che la ragione ci impone.
Quindi ecco, malos, questo è il frutto della mia sorpresa; ed è così saporito che non mi laverò nemmeno i denti per non volerlo smarrire con la menta piperita.
ocramocra ha detto:
cazzocazzocazzo … ho sbagliato piano