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attrito, capire, fermata, guzzi, logorio, narrativa, percorso, racconto, rosso, scrivere, semaforo
ron-sguisccc ron-sguisccc ron-sguisccc le spazzole tengono ancora bene e nello spazio tra due sguisccc le gocce fanno una conversevole presenza ricoprendo nuovamente il vetro fermo al semaforo con me là dietro sprofondata in un torpore cervicaldolente che mi causa momentanea distr-azione se non fosse per il rosso rotondo che taglieggia la retina destra e mi rimanda ad altri lampi di colore come quello del serbatoio della Guzzi di papà dal quale cercavo di graffiare via con l’unghia quella macchia nera a forma di aquilotto stando tra il comodo schienale del suo torace ed il vento che mi faceva socchiudere gli occhi soffocandomi quasi e sarà per quella vecchia abitudine di chiudere gli occhi se mi sono sempre concentrata sulle cose che non appaiono subito ma si avvertono lo stesso come il tono delle parole ancora prima di interpretarne il significato riconoscere le bugie dall’alterazione della voce dal ritmo del respiro o sentire un profumo sconosciuto sopra un collo di camicia leggere i gesti prima di sentire le parole mi piaceva l’aria sulla faccia anche se non mi faceva respirare era un soffocare stranamente energizzante non come il difetto d’aria che mi ha fatto annaspare in quelle sale d’attesa dove il gelo mi artigliava la schiena e lei sorridendo faceva coraggio a me che non le ho mai saputo mentire molto bene sorrideva nonostante avvertisse la bugia nelle parole rassicuranti che ci passavamo di bocca in bocca come bolo preconfezionato tutti impegnati a inventare anni e futuro per le sue orecchie di uccellino nella rete con gli occhi troppo tondi e le ossa spolpate adesso occhieggia il verde ronza appena il motore fa un piccolo balzo di intrepida tigre ma già rassegnata alla prossima sosta perché a fermarsi di continuo si perde la voglia della corsa quella di oltrepassare l’orizzonte e gli arcobaleni divengono sempre più sbiaditi ché succede sempre così si procede per salti tutto parcellizzato tutto quantizzato lo sono anche i piccoli pacchetti di felicità che ti piovono addosso mentre tu cerchi l’effetto continuo la persistenza della gioia come le immagini fluide sulla retina c’è traffico ed è subito rosso di nuovo e se succede di sera domani forse sorrido anche cappuccetto aveva qualcosa di rosso e non so bene se tifassi per il lupo che per l’ordine naturale delle cose nel bosco ci stava proprio bene o per la bimba che invece tra il verde del bosco mi sembrava fuori posto e mi è rimasta ancora una certa difficoltà a separare buoni e cattivi secondo una tassonomia convenzionale ma chissà cosa guarda il mio vicino di stop i suoi occhi mi passano oltre come se fossi invisibile perché vediamo solo le cose che vogliamo vedere come bravi fotografi mettiamo a fuoco e isoliamo dalla scena solo qualche dettaglio e il resto resta tutto nella nebbia come se non esistesse vediamo solo una parte del mondo come se guardassimo dalla finestra giusto uno scorcio come un quadro come un racconto breve quegli occhi mi oltrepassano escono dall’altro lato dell’auto fino alla capinera sul ramo d’arbusto annerito di uno scuro mimetico da città e hanno uno sguardo tenero finché il fuoco si arresta sul mio viso intruso e allora la tenerezza si rinserra dietro le sbarre di un disappunto forse per la vergogna di essersi mostrata troppo discinta come se solo i bambini avessero il privilegio della meraviglia e di poterla mostrare senza veli per fortuna è finita la pioggia ma ha lasciato un lucido da ceramica sui petali dei papaveri come spesso succede la bellezza nasce per caso e ti coglie per caso come in quella vecchia foto dei bambini anche loro fiorellini tra papaveri e margherite che non sai mai che magnifico periodo stai vivendo quando sono ancora piccoli al sicuro accerchiati dalle tue braccia che poi diventeranno troppo corte per contenere tutto il loro mondo e una parte inevitabilmente ne resterà fuori e tu con essa e ancora non sai che tante cose non potrai scansarle il passare del tempo il logorio delle giunture non sai che potrai solo fare finta di accettarle e anche essere molto convincente anche se ti arrabbi lo stesso e non solo le cose succedono per caso ma anche fuori tempo e non ci puoi fare niente contro questo sfasamento temporale cosmico il disguido sembra essere l’imperativo mi sto annoiando e quasi quasi mi fermo e scendo come se si potesse scegliere la fermata che se ci fosse un disegno di penna a tratti sottili sarebbe più facile seguire la traccia schivare nel caso gli intralci ma i progetti presuppongono la lungimiranza la perfetta successione di causa ed effetto e non ho voglia di spasseggiarmi in questo giorno da diporto se avessi voglia di movimento me ne andrei al porto che mi dà sempre il sapore dell’avventura peccato che soffro il mal di mare e non so essere marinaio di quelli dalle promesse facili molte non mantenute molte consapevolmente tradite ché a tradire ci vuole coraggio quello di graffiare sapendo di fare male allora senza ardimento non mi resta che stare coi sassi ancorati alle caviglie usare per zavorra le pigrizie e le motivazioni ad arte fatte e se a navigare non sono buona neppure a volare riuscirei perché anche per quello ci vuole un bel piano e senza progetto al massimo svolazzo sul tetto e da lì potrei vedere tutto in avanti fino all’orizzonte ed anche di lato ed all’indietro fino a rintracciare qualche prova tangibile di me come un certificato di esistenza ché talvolta non mi riconosco tutta per intero o forse è che mi manca qualche pezzo che si sarà perduto o sgretolato per incuria per stanchezza o solo perché niente dura e dobbiamo fare i conti con l’usura con l’attrito e con i cambiamenti e ci siamo anche guardate una volta negli occhi io e la me bambina provando la scintilla di una intesa quasi un occhiolino siamo state felici di incontrarci e chi lo sa che cosa aveva in mente con le sue scarpe di vernice il fiocco sulla testa parlando di inventari penso che sì dovrei decidermi e buttare tutte le cose vecchie o quantomeno fare ordine buttare via qualcosa se anche a liberare i cassetti non ci volesse coraggio si svuotano facilmente se il contenuto ci va troppo stretto se è indifferente ma l’indifferenza fa morire allora meglio riempirne di nuovi e lasciare lì dimenticate le cose passate ad accumularsi e sì farò così le porterò in garage che è il primo passo verso la spazzatura e intanto faccio spazio mi compro un nuovo armadio e adesso credo di trovarmi in questa pagina perché qualcuno mi ci ha messo e di me non so niente forse neppure il mio ideatore ha pensato a darmi una parte ben precisa da interpretare e quindi dovrò trovarla da sola e lo farò andando a braccio senza copione vivendo qui e a ogni incontro con un passante scoprirò qualcosa di me e metterò in archivio la scoperta e se ci fosse uno strizzacervelli la fuori forse potrebbe dirne di più… ma non si aspetti che lo paghi per giunta 🙂
massimolegnani ha detto:
confesso che ho faticato all’inizio: l’assenza di punteggiatura mi ha costretto a cercare un ritmo mio di lettura, come trovare la lentezza giusta con la macchina per non inciampare nei rossi e beccare l’onda verde.
Qui il semaforo rosso è occasione di brevi riflessioni e di altrettanto brevi galoppate della memoria (il tergicristallo mi fa pensare a un continuo azzeramento dei pensieri-gocce sul vetro), ma è soprattutto metafora della vita, dove le interruzioni provocate da lutti, dispiaceri, malesseri, impediscono la “persistenza della gioia”.
è un profluvio di parole, belle quasi tutte (ti boccio solo “conversevole presenza” davvero urticante), che secondo me ti servono soprattutto a fare del contrabbando: sì, mostri al doganiere-lettore la tua valigia rigonfia di indumenti, di oggetti di normale sopravvivenza, di foto-ricordo, di strumenti di lavoro, convinta che di fronte a tanta roba lui non veda le cose nascoste, quelle che vorresti far passare sotto silenzio, le emozioni private che sai solo tu, magari quell’unica parola che fra tante ti fa davvero tremare. (insomma la vecchia tecnica di nascondersi in mezzo alla folla anzichè in un rifugio solitario).
ma, a parte queste elucubrazioni un po’ farneticanti, mi è piaciuto già quello che appare in superficie, la motoguzzi e la bambina, la doppia bambina, tu che ti guardi com’eri e tu che guardi tua figlia fragile e solida in una malattia (una crisi asmatica?), e poi capuccettorosso e il lupo e i cassetti vecchi e gli armadi nuovi.
ml
mirimettoingioco ha detto:
ho messo in conto il fatto che la lettura potesse essere ostica o noiosa. come hai fatto notare, ognuno deve cercare il ritmo di lettura e non è detto che il passo di chi legge corrisponda a quello di chi ha scritto, ma credo che tu abbia trovato la sintonia, e l’idea che hai suggerito del ‘contrabbando’ mi sembra adatta, direi che vada bene per qualsiasi scritto e non solo, ma anche per il modo di vestirsi, per come si fanno le compere, per come si arreda la casa, per come si riempie il frigo, per come si disegna ( e qui sto iniziando a farneticare anch’io 🙂
la ‘conversevole presenza’, anche se cacofonica, l’ho messa perché mi piace il rumore della pioggia, leggera o scrosciante che sia, ma mi fido di te e mi prendo la bocciatura 🙂
Alisa ha detto:
premetto che questo genere di racconti così introspettivi e metaforici, non mi hanno mai entusiasmato, ma questo indubbiamente è scritto con sapienza, tenendo ben saldi i fili del pensiero. Qui una cosa appare chiara ed è l’attinenza al tema: un racconto che rispecchia l’atteggiamento della protagonista nei confronti della vita. A volte si lascia trasportare dall flusso, altre è lei a prendere le redini, comunque non butta nulla: panta rei, ma tutto fa brodo 🙂
mirimettoingioco ha detto:
non credo che abbiamo molta scelta, non possiamo fare altro che prendere il pacchetto completo, qualcosa sarà da conservare, altro da buttare, anche se quello che si butta, in qualche modo, continuerà ad esistere, cambia la considerazione che noi abbiamo di esso.
malosmannaja ha detto:
i flussi di coscienza minuscoli mi sono sempre piaciuti sarà che essendo nano entro facilmente in risonanza con il corpus o che magari essend’onano il masturbarmi di parole m’esce congeniale quanto il fatto di versarmi un po’ di vino buono ma di certo siamo tutti fatti di parole quindi bene si va avanti tra le gocce dove pure la presenza pare assenza e il tempo si racconta andando a braccio ovvero tutto ciò che manca torna assieme al moto un po’ ossessivo e cigolante dei tergicristalli che difatti oscillano da destra a manca soffocando di pensieri l’oggi e anche il domani da cercare e stringere per salutarsi vivi dal continuo mettersi più a fuoco in barba alla speranza di ricominciare un viaggio senza arte né parte e infatti ahimè il semaforo ritorna rosso e il moto delle spazzole non è la moto di papà sebbene alcuni non ci credano poiché se è vero che maschile e femminile sono generi antitetici è vero che comunque restano astrazioni assai difficili da separare quanto i buoni dai cattivi quanto un tratto di pennello astratto da un bel quadro impressionista che ritrae una sagoma di donna in controluce spasseggiante nella nebbia mentre sconta i passi tre per due seguendo e proseguendo senza soluzione di continuità fin tanto che lo spasso e il fingere non hanno più lo slancio sufficiente a compensare l’amarezza di trovarsi in una pagina già scritta anche se vuota e nel buttare via qualcosa capita che non t’accorgi che talvolta può succedere sempre così.
insomma, nel suo genere, con tutti i suoli ineludibili limiti comunicativi sostanziali, questo m’è sembrato un ottimo scritto formale.
: )
mirimettoingioco ha detto:
se ho ben capito quello che vuoi dire nelle due ultime righe,
sono d’accordo con te sui limiti comunicativi e sulla costruzione formale 🙂
per l’ottimo ti ringrazio, bontà tua.
a mio parere il reale flusso di coscienza è quello che si verifica senza l’intenzionalità di farlo diventare qualcosa da leggere, perché in questo caso alla base c’è sempre la volontà di chi scrive a dirigere.
questo brano è il risultato di un esperimento, ho preso vecchi brani scritti in passato in momenti diversi e ho provato a rimaneggiarli e vedere cosa avrei tagliato, cosa avrei aggiunto di nuovo, cercando di scriverle in forma differente.
massimolegnani ha detto:
chiedo scusa, m’intrometto tra te e malos: voi parlate di scrittura “formale” e non concordo. Certo la forma è fondamentale, esperimento, ritaglio, cesello, ma io penso alle ciliegie, belle da vedere nella loro sfericità accativante ancora appese all’albero, ma poi il passo determinante è staccarle dal ramo, portarle alla bocca, spolparle fino a scarnificare il nocciolo, godersele tra lingua e palato. E qui, di ciliegie ce ne sono, per me possono essere i piccoli pacchetti di felicità, per un altro il viaggio in motoguzzi, sostanza insomma, non solo bella forma.
ml
tempodiverso ha detto:
il titolo mi sembra indovinato e rappresenta una sorta di filo conduttore per questo flusso di pensieriparole che arrivano talvolta scanditi dalle soste e altre volte richiamati da lampi che non sono solo di luce, ma flash di ricordi, di richiami e tutta la varietà di immagini e di considerazioni di legano giustificati da quell’andare a braccio che compare nella parte finale del brano. sarà un modo di procedere auspicato? un modo salvifico di guardare il nulla? perché in fondo anche qui mi sembra che ci sia una sottile angoscia per il vuoto, per quello sfumare di orizzonti, per la mancanza di linee chiare che portino da una qualche parte ben definita. mi è piaciuto l’occhiolino e lo sguardo di intesa tra l’adulta e se stessa bambina, come a dire che nonostante il viaggio e le soste si riconoscono, continua ad esserci una coerenza di fondo tra loro che l’usura non ha attaccato.
mirimettoingioco ha detto:
una serie di lampi, ci arrivano flash dall’esterno, dall’interno e in aggiunta volontariamente ci facciamo altri flash… non per niente i ragazzi dicono,ma che sei flesciato? 🙂
righe orizzontali ha detto:
Non ho avuto abbastanza fiato per leggerlo in una volta sola. Mi sono dovuta fermare e riprendere dopo un po’. La mancanza di punteggiatura induce un effetto apnea che non favorisce la comprensione, almeno la mia. E’ un racconto apparentemente confusionario che però alla base ha direttrici lineari. Non mi riferisco solo ai punti ricorrenti che segnano il percorso del viaggio (il semaforo, la sosta, il traffico), ma soprattutto al parlarsi addosso che spesso capita quando si cerca qualcosa, quando si è indecisi, confusi, smarriti, ma al contempo desiderosi di trovare una soluzione e andare oltre. Insomma non mi pare solo una sbrodolatura di parole, ma un sapiente minestrone di pezzi d’autore -nel senso che all’autore appartengono- in cerca di identità e un mix ragionato di righe buttate giù alla rinfusa con lo scopo preciso di chiarirsi le idee. Mi sbaglio AI?
Il passaggio su cappuccetto, il lupo e le conseguenti difficoltà a separare i buoni dai cattivi è a mio avviso la piccola perla contenuta in questo racconto. Mi sono piaciuti molto quel verde, quel rosso e come li hai descritti.
Non me ne voglia l’autore, ma solo il grande Gabo era capace di scrivere tre pagine senza punteggiatura e non generare l’effetto apnea. Gabo era Gabo e come lui nessun altro.
mirimettoingioco ha detto:
grazie del commento, righeorizzontali, il parlarsi addosso a volte può essere uno sfogo, altre volte una sorta di promemoria, in ogni caso, per respirare bene bisogna prendere il ritmo giusto. la mancanza di punteggiatura talvolta è anche meglio di una punteggiatura che usa schemi diversissimi da quelli convenzionali; hai letto Saramago? ho esitato per le prime cento pagine.
Non credevo di dare l’idea di una ricerca di identità, ma più che altro si potrebbe trattare di una attestazione di identità, le idee sono piuttosto chiare su molte cose, se siano giuste o sbagliate questo è tutto da vedere 🙂
righe orizzontali ha detto:
Credo di aver letto in te una ricerca di identità perché, come spesso mi accade, cerco in ciò che leggo uno specchio in cui riflettermi. Nel tuo parlarti addosso ho ritrovato una mia ricerca continua, quel meccanismo che mi fa sovrapporre immagini, pensieri, spazi temporali sempre in cerca di un senso plausibile e di spiegazioni accettabili. Farnetico? Si, stasera farnetico. Non ho letto Saramago e le tue cento pagine di esitazione….
ggianluiigi ha detto:
Ho riflettuto non poco prima di commentare; il fatto è che questo brano è molto vicino al mio sentire e non volevo essere condizionato da questa circostanza, ma esprimere un giudizio quanto più possibile motivato. Allora ho lasciato che le emozioni decantassero.
Dunque… Premesso che io apprezzo tutte le scritture quando sono buone scritture, penso che chiunque (o quasi), in possesso di una buona scuola (si legga “tecnica”), sia in grado di scrivere un bel “racconto raccontato”; penso invece che sapersi “fare da parte” lasciando che a “parlare” sia la coscienza e “limitandosi” a prestare ad essa una forma minima necessaria che ne consenti l’emergenza all’esterno, (emergenza che altrimenti sarebbe impedita dalla sua stessa natura) sia tutta un’altra cosa, sia propriamente “scrivere”.
E qui già emerge inevitabilmente il mio apprezzamento “preventivo” per questo brano.
Qui, Il contesto di riferimento è indubbiamente quel territorio sismico in cui la coscienza non è ancora coscenza piena, questo almeno mi pare un dato assodato, e da altri commentatori che mi hanno preceduto adotto volentieri la definizione di “flusso della coscienza” quale chiave di lettura.
Ora… è quella della coscienza una zona necessariamente instabile, oscura, magmatica, non ci si possono davvero aspettare punti e virgole, e punti e virgola, virgolette, trattini e parentesi tonde. La punteggiatura è precisamente un modo per organizzare il caos del mondo, qui l’AI non pretende attraverso la scrittura di organizzare alcunché, non rientra nei suoi “compiti”: egli osserva, guarda, rivede gli avvenimenti della vita, lascia che scorrano senza opporre barriere, senza appunto cercare di organizzare, senza voler ricucire le cose per riallacciare i fili sfilacciati, senza fare -come si dice- bilanci. a che servirebbe poi? Giusto?
Scusami AI chiedo continuamente conferme, temo sempre di uscire dal seminato 🙂
Continuiamo, allora, sarebbe ingenuo ma anche ingeneroso se come lettore ( qui parlo tra me e me) inseguissi una comprensione del tipo: come-se-ci-fosse-la-punteggiatura-peccato-che-non-c’è. E anzi, se a metà lettura sento che mi manca l’aria, è esattamente perché l’aria deve mancarmi, ovvero è necessario che mi manchi, poichè proprio nell’apnea si cela buona parte del senso di questo brano. qui sono più le mancanze che le rassicuranti presenze a farla da padrone. Sono quelle mancanze che cercano in tutti i modi di emergere, attraverso la scrittura, nonostante certi comprensibili spostamenti dell’autore che un po’ nasconde e un po’ mostra, come in un sogno.
La lettura può dislocarsi su diversi livelli, dunque qui a mio avviso NON manca la punteggiatura (non manca nel senso di qualcosa che non c’è e che invece doveva esserci) Né la sua assenza può essere ascritta a un vano virtuosismo tecnico-formale dell’autore.
La coscienza è per l’appunto un flusso disorganizzato, e in questa apparente (sarebbe bene sottolineare apparente) disorganizzazione che risiede tutto il suo valore, anche terapeutico, no? L’autore si fa medium, non “ci parla” attraverso un linguaggio organizzato, non potrebbe! La forma, rappresenta il limite e insieme la condizione di possibilità per l’emergenza dell’inconscio. Di cos’altro si parla qua se non di inconscio? C’è anche un po’ del sogno in questa scrittura, e quando il sogno ci “parla”, non è che usi la punteggiatura.
Quindi se tutto questo mio discorso è vero e se io non ho sproloquiato vanamente (a volte lo faccio) allora questo brano è un gran bel brano, l’autore attraverso la scrittura ha saputo trovare un equilibrio difficilissimo tra la forma e l’informe riuscendo secondo me a dare un volto a ciò che normalmente non ha volto, a ciò che si esprime attraverso i nostri cambiamenti d’umore, le paure, i rimpianti, attraverso la rassegnazione a volte, ma che difficilmente si presta ad essere intercettato dalle parole così da essere comunicato anche agli altri.
In questa capacità risiede la bravura dell’autore che però… Qui faccio una piccola critica, in un paio di passaggi si è un po’ sostituito alla sua coscienza per “infiocchettare” qualche passaggio. Poco male lo avremmo fatto tutti credo, io per primo.
Complimenti incondizionati.
ggianluiigi ha detto:
Scusami, più che di “coscienza” , (mi aveva catturato l’immagine del “flusso”) a rigore avrei dovuto parlare invece di “preconscio”. Spero si capisca ugualmente ciò che volevo dire, anche se la differenza non è certo di poco conto.
mirimettoingioco ha detto:
Grazie, Gianluigi, il tuo commento accurato mi lascia senza parole, anche nel senso che mi da occasione di pensare.
non so da dove cominciare a rispondere, perché partendo da un contenuto e da una modalità di scrittura, l’argomento si sta ampliando estendendosi a qualsiasi produzione scritta e coinvolgendo ambiti di cui purtroppo ignoro tutto, ma che mi incuriosiscono non poco (so solamente che Freud esiste 🙂 e pochissimo altro)
prendilo dunque come un chiacchericcio domenicale da incompetente, davanti a un aperitivo, immagino che ci siano delle differenze tra un flusso di coscienza scritto per essere fatto leggere ad un pubblico come in questo caso o nei suoi più ‘illustrissimi’ predecessori e una annotazione puntuale di tutti i pensieri e le emozioni che arrivano continuamente alla nostra coscienza; questi ultimi, arriveranno già filtrati alla coscienza, perché non tutto passa, ma l’individuo può, in questo caso, diventare o limitarsi ad essere un meccanico redattore di quello che ha percepito.
nel primo caso invece, non c’è solo la consapevolezza dell’individuo, ma a questa si aggiunge il suo arbitrio di autore e quindi ci sarà una doppia selezione dei contenuti:la censura naturale e inconsapevole operata dall’individuo e la scelta oculata dell’autore che deciderà cosa mettere in primo piano, cosa sullo sfondo, sceglierà il montaggio delle scene finalizzato a quello che vuole rappresentare. quindi leggendo l’Ulysse noi leggiamo tanta parte dell’autore, ma molto di quello che lui ha voluto dare ad intendere.
non so se abbiamo detto la stessa cosa. ma tu lo sai dire molto più chiaramente 🙂
ocramocra ha detto:
Un flusso di idee e immagini e ricordi rese fluide e interconnesse da un programma di morphing letterario, come quando vedi la faccia di un vecchio divenire quella di un bambino e poi ancora e ancora e ancora … potresti anche non smettere mai di leggere perché si genera un effetto anestitizzante e tutto scende in sottotono e tu giri al rallentatore perché sei ancora afferrato alla prima immagine e già lo schermo propone la quarta, due tre secondi al massimo e poi via un’altra.
Se torni da capo intenzionato a scoprire se c’è una traccia che lega frase a frase diventa complicatissimo perché sei costretto a tenere a mente particolari e dettagli per confrontarli con l’immagine successiva e dopo cinque o sei immagini diventi scemo.
Meglio leggere facendosi prendere dal ritmo, afferrando una parola qua e una la, digerirne l’effetto subliminale e aspettare l’effetto finale che sarà diverso a seconda dello stato d’animo che le immagini hanno provocato … come quando ti sottopongono al test delle macchie di Roschach … a me le macchie hanno indotto un sentimento di compassione, fraterna condivisione, comprensione di oscure dinamiche familiari ed altro ancora … quindi mi hanno fatto partecipare ad un “dramma” in maniera emotiva, tra l’altro tenendo in considerazione che si intendeva perseguire una somiglianza letteraria, questo flusso emotivo si è rivolto all’autore avvolgendolo in un abbraccio … quindi è un buon risultato per un brano letterario, ma io ho abbracciato l’autore senza nemmeno capire il perché e nemmeno sapere se voleva essere abbracciato … imbarazzante.
Causare imbarazzo è un buon risultato? Forse si … ma non farlo più!
mirimettoingioco ha detto:
causare qualsiasi cosa è un buon risultato, Grazie 🙂
forse la pratica della lettura esiste proprio per questo abbraccio, e non tanto per l’abbraccio ricevuto, che comunque è un gesto che parte da un altro individuo, quanto per riconoscersi la capacità di abbracciare.
scrittorucolo ha detto:
Per me ke amo le frasi brevi e tanti punti fermi è stato quasi come andare alla deriva o + semplicemente come uno smarrirsi dentro una pagina ke in fondo è una cosa molto buffa xkè un foglio è poco più grande di un coriandolo e allora mi è venuto da pensare al modo di dire del tipo ke si smarrisce in un bicchier d’acqua… 🙂 🙂 Questo però non significa ke non mi sia piaciuto, anzi vuol dire ke mi è piaciuto xkè penso sempre che per ritrovarsi bisogna prima perdersi e xkè trovarsi di fronte a sè stessi bambino-bambina e ricostruire subito d’istinto un’intesa – quasi un occhiolino – è un bellissimo segno di vitalità e infatti qui ce n’è davvero così tanta da sperare con tutto il cuore ke davvero questo racconto ti somigli 🙂
mirimettoingioco ha detto:
grazie, scrittorucolo, ho visto solo ora il tuo commento.hai ragione sembra strano smarrirsi dentro un foglio, ma è colpa di tutte quelle righe nere e anche di quel bianco tra le righe che abbaglia, del suo nulla da dovere riempire.
spero che mi somigli, sì, ma chi lo sa? forse tutti quanti guardando gli altri e guardando noi stessi vediamo solo quello che vogliamo vedere, la sfaccettatura che più ci colpisce.
come tu forse vorresti che vedessi solo le k 🙂 🙂 🙂
Lapo Orage ha detto:
Una scrittura molto fluida che inevitabilmente fluisce e sfugge tra le dita. Mi è sembrato stimolante soprattutto il punto di contatto tra le cose arte-fatte e le cose davvero sentite e, per dirla con i cassetti, chissà se il contenuto ci va troppo stretto o troppo largo, probabile che dipenda dalla taglia che di solito indossiamo e che non è mai la stessa perché finché siamo bambini cresciamo, ma pure da adulti spesso cambia e ingrassiamo di parole…
mirimettoingioco ha detto:
non sempre la separazione tra le cose veramente sentite e quelle arte-fatte è netta basta pensare a tutte le volte che ci convinciamo, erroneamente, di qualcosa risentendo in modo concreto, anche fisico, dell’effetto di quella certezza.
sì crescendo ingrassiamo di parole, ma anche il nostro mondo conosciuto si espande e le nostre esperienze e abbiamo bisogno di dare loro un nome, di battezzarle.
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