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campagna, casa, dimore, mimettoingioco, polvere, prosa, racconto, ragno, scrivere, somiglianza, tela
Il mio errore è stato quello comune a tanti uomini, averla plasmata per anni perché mi assomigliasse. L’avrei voluta aristocratica, raffinata fino allo snobismo,
così le avevo proposto colori tenui e un poco eccentrici, una cipria rosa sul suo pallore smunto. E poi le avevo imposto la cultura, quadri e libri tanti da annullare la sua origine contadina. È stato come tentare di piegare una barra di ferro con la forza delle braccia o con quella della volontà. Voi ci siete mai riusciti? Devo dire che io più di una volta mi sono illuso di farcela, di avere il sopravvento su di lei. Ma poi immancabilmente riaffiorava il suo spirito rustico, un rifiuto ottuso a modificare la propria personalità.
La mia casa di campagna, ogni volta che tornavo, erano chiazze di umido sulle pareti appena tinteggiate, un riaffiorar di ragnatele dove avevo passato panno e insetticida, una patina di polvere e cenere minutissima sui mobili e sui pavimenti che inceravo di continuo, muffa subdola tra i libri, quelli più amati. Sembrava lo facesse apposta.
È stato mentre mi arrampicavo sulla scala intenzionato a distruggere l’ennesima ragnatela che mi sono bloccato tra un piolo e l’altro, come folgorato. Guardando con occhio nuovo il mirabile disegno della tela, mi chiesi “e perché non il ragno?” Sì, perché non eleggere proprio il mio nemico a nume tutelare della casa, perché non farne simbolo del luogo? Fissai la trama, incantato dalla sua perfezione, impossibile ormai pensare di distruggerla. È iniziata lì la mia conversione, non meno sentita di quella di Saulo andando a Damasco. Non è stata una resa ma un’accettazione, come quando di una donna ti accorgi di amare ormai anche i difetti. E in effetti scoprii il piacere di pescare dagli scaffali un libro acquistato pochi giorni prima, aprirlo alla poltrona e cogliere quell’odore di stantio, che me lo faceva sembrare antico e più prezioso. Mi accorsi che i libri assimilavano la casa ed io con loro. Anche la polvere, alimentata dalla stufa, dapprima fu uno scambio, la sopportavo in cambio del calore, poi una vera accettazione del suo valore, compresi la sua pietà nello scendere uniforme sulle cose.
Ora sono io che guardo e ascolto la mia casa e a poco a poco la imparo e le assomiglio. Ho preso a fumare la pipa forse per imitare la mia stufa, che un fil di fumo anche lei lo spande per la stanza. I borbottii e gli sfiati delle tubature dentro i muri a volte assomigliano ai miei rumori intestinali dopo un pasto troppo abbondante, altre al rantolo del respiro quando crollo addormentato sul divano. Ascolto il cigolio delle porte e lo scricchiolio dei pavimenti e non li distinguo dai gemiti delle mie ossa malandate. E quella finestrella che vedete, circondata, quasi soffocata, dalla vite vergine e dai rami del nocciòlo, non è diversa la mia faccia da quando ho smesso di radermi, la bocca quasi nascosta dallo spiovere dei baffi, gli occhi due fessure sotto l’intrico delle sopracciglia.
Finalmente conviviamo, la mia dimora ed io, in una reciproca imitazione, che come tante coppie consolidate è ormai difficile dire quali erano in origine i tratti di uno quali quelli dell’altra. Ma ci sono momenti in cui questa casa così prepotente sembra schiacciarmi, allora cerco con gli occhi tra soffitto e muro un ragno infaticabile, lo guardo da lontano e mi lascio contagiare dalla sua quiete certosina.
ocramocra ha detto:
bello, picevole, scorrevole … corto
mi sono piaciute le immagini come la pietà della polvere ed altre
la casa sopra ogni cosa è come l’anima che ci caratterizza, inutile combatterla cercando di modificarne gli atteggiamenti, meglio assecondarla … come la fede che paolo incontrò sulla strada per damasco … quindi la casa è la mia anima dentro la quale tutto mi si confà
la fede è un’allegoria, la fede sono io
mirimettoingioco ha detto:
parlar di case forse è più facile che parlare direttamente di rapporti umani, ma il concetto che ne esce è lo stesso. (quindi più che la fede, è la casa ad essere un’allegoria)
ciao ocra
malosmannaja ha detto:
molto bello. e poetico, aggiungo. e… financo allegorico, tiè
: )
l’idea dello specchiarsi reciproco tra casa e inquilino non è nuova, ma qui m’è parso svilupparsi secondo stilemi originali e con mirabile umanità. l’incursione della *trama* di tela di ragno, poi, è pure pura meta-narrazione di spazi ed ambienti, tanto che alla fine il ragno infaticabile da cui ci lasciamo contagiare, non ci trasmette solo la quiete, ma anche la passione per la trama e per la lettura.
: )))
mi è piaciuto poi come la narrazione parta dall’errore, nonché dall’ostinato perseverare in esso – umano troppo umano, chioserebbe convinto zio Federico – che determina immancabili riaffioramenti dello “spirito rustico” ovvero della realtà prima che i nostri deliri s’affannino invano a cercare di cambiarla. a seguire c’è la folgorazione che muta l’interazione distruttiva (“mentre mi arrampicavo sulla scala intenzionato a distruggere l’ennesima ragnatela”) in intuizione creativa (“fissai la trama”) e il conseguente coincidere d’io e stant’io, nucleo polposo di una nuova religione immanentista dove l’assimilazione reciproca della voce narrante e della casa trova armonia e dimora creativa su una pagina scritta (“in una reciproca imitazione”).
è un circolo virtuoso, dunque, in cui nello specchiarmi nelle cose “imparo e assomiglio”, assecondando un imitare non è mai un l’imitare (apprendiamo, fin da bambini, da brave scimmiette, per imitazione), ma al contrario un riscoprire la realtà contadina, fatta di borbottii, semplicità e accettazione zen dei cicli vitali.
perché è evidente che, l’io narrante, invecchia nell’arco del racconto e gradualmente acquisisce quel minimo di saggezza che gli consente di *carpire* il senso della stufa e di attendere la morte confortato dalla quiete più antica e più preziosa del mondo.
: )
mirimettoingioco ha detto:
anni fa ho letto (e in questi giorni ho ricordato) in un romanzo di Paul McGraith (“il morbo di Haggard”) una pagina in cui il protagonista male in salute ascoltava i rumori della della casa e li faceva propri in una perfetta simbiosi (o reciproca ipocondria).
Di fronte al tema proposto mi sono chiesto quando si può parlare di dimora e mi sono risposto alla Boskov di antica memoria “dimora è quando ci vivi e convivi”.
Il resto è venuto di conseguenza.
ciao malos
Cecil ha detto:
sai che succede, autore, che un po’ tutti vorremmo avere il controllo sulle cose e anche sulle case (talvolta vorremmo anche plasmare le persone) e passiamo buona parte della nostra vita lottando per raggiungere il nostro scopo. poi arriva la folgorazione, la consapevolezza che è fatica inutile, che è stata e sarà una battaglia persa: abbiamo così raggiunto la saggezza e con l’occhio della saggezza vediamo ed apprezziamo dettagli che prima avevamo cercato di cancellare, forse tutto inizia per necessità di quieto vivere, per una sorta di compromesso. Invece qui mi piace che il momento iniziale della trasformazione sia lo stupore di fronte alla trama della tela di ragno. è un modo per uscire dal proprio universo egoistico e ammettere le qualità del nemico, riconoscere il suo diritto ad esistere. la voce narrante non parla di una casa fatta a sua misura, ma di se stesso che si scopre simile alla casa. Piaciuta anche questa interpretazione del tema.
mirimettoingioco ha detto:
sì Cecil, fatica inutile (e dannosa) opporsi a case, cose e persone, per far trionfare il proprio io inalterato. Più fruttuoso, nei limiti del possibile, assecondare, conciliare, mescolare le due personalità, evolversi.
grazie, ciao
scrittorucolo ha detto:
Ma ke bella la foto anke x come si sposa con il volto barbuto del racconto! E pensavo ke a volte è proprio vero ke cerchiamo in tutti i modi di cambiare le cose senza saperle ascoltare le cose – ma anke le persone – e invece quando ci proviamo ad entrare in sintonia con il mondo ke ci circonda ne esce sia un racconto molto bello ke un finalmente di quiete 🙂
mirimettoingioco ha detto:
è vero, quella foto mi aveva colpito per la somiglianza con un volto barbuto!
ed è vero anche, come dici, che spesso non sappiamo ascoltare le cose e le persone, vorremmo piegarle all’idea che ci siamo fatti noi di loro.
ciao, grazie
stefaniazan8 ha detto:
casa, dimora, radici, , una parte di noi, che ci portiamo dentro anche quando siamo fuori.
la casa e l’uomo che si fondono insieme, entrambi prendono qualcosa dell’altro modificandosi e diventando unici.
Una protezione, un rifugio che non tradisce mai, ma anche una ragnatela, una prigione che a volte ci sta stretta e da cui vogliamo scappare.
Scappare dalla propria casa, da noi stessi, e allora si cerca qualcuno che in quella casa ha trovato il giusto equilibrio qualcuno che cattura e allo stesso tempo è catturato.
Quill’inquilino insolito, a volte scomodo, ma che ci fa compagnia e riflette il nostro essere a casa.
🙂 Bello
mirimettoingioco ha detto:
interessante la tua notazione: la ragnatela che il protagonista ha assurto a simbolo della casa, non è solo mirabile disegno, senso di pace, ecc, ma è anche trappola che invischia, soffoca, uccide. ed è proprio in questa doppiezza che simboleggia la casa.
grazie, ciao
Jihan ha detto:
mi hai fatto ridere A-che non fa proprio nulla per essere-I, la casa che fa puzzette e ruttini è fenomenale 🙂 ben oltre l’antropomorfismo della facciata. Mi unisco al coro degli apprezzamenti, obviuosly.
mirimettoingioco ha detto:
bè, contavo che non fossero così espliciti i richiami ad altri scritti. con te non avevo dubbi che mi avresti sgamato 🙂
naturalmente, grazie
ggianluigi ha detto:
Ahhhhh! La sindrome dell’architetto! quella degenerata maledetta patologia per cui si pensa di trasformare una casa nella “propria casa” non già attraverso la serena accettazione delle venerande caratteristiche che il tempo le ha conferito, ma, illusoriamente, attraverso una serie di interventi esteriori, a volte rivoluzionari, per farla “simile a sé” ovvero ” A propria immagine”. Piuttosto inquietante perché richiama alla memoria pretese di onnipotenza
È una pratica questa che -diciamoci la verità- la tradizione e la cultura ha da sempre affidato, ma anche affibbiato alla figura femminile ovvero “l’angelo del focolare”, la casa è da sempre sua proprietà privata.
Ma tali interventi generalmente finiscono poi sempre per andare nel verso diametralmente opposto rispetto alla nobiltà del proposito, e allora eccola lì a chiedersi : “ma come mai non sono felice? Ho messo persino il parquet di iroko in camera da letto! (Poi capisce che doveva rivolgersi all’analista e non all’architetto) heheheh sono cattivello, lo so.
Lo sappiamo tutti che è così dai! 🙂
Ed è sempre Lei che animata dalle migliori intenzioni ha compiuto i più terribili sfaceli della storia (e non solo materiali) all’insegna del “Io ti cambierò”, dichiarazione di guerra ammantata di pace, che assume la forma ben più sinistra e drammatica del “Io ti salverò” quando nella sua immensa bontà decide di passare dalla ” cura” della casa a quella del proprio uomo, e allora son dolori per davvero. Ben venga dunque l’aracnide vendicatore. Sua Maestà il ragno, nero e peloso, maschio, protagonista da sempre degli incubi al femminile. Suo nemico nemico giurato perché testimone vivente e incorruttibile del fatto che in quell’angolino da almeno 30 minuti non è passato un cazzo di straccio della polvere, un piumino, niente di niente. E allora il testimone scomodo deve morire!
Ma il grande ragno non muore mai, imperituro, indistruttibile, nobile persino, a difendere senza piegarsi il valore dell’imperfetto per riportare le cose nell’alveo dell’inevitabilità e dell’accettazione; Per ribadire con la sua immensa commovente pazienza che conviene lasciare il mondo come lo si è trovato.
Non me ne vogliano le signore, ovviamente scherzavo 🙂 ma non troppo però.
Bravo a te autore, maschietto al 99,9 %. Racconto semplice e lineare, quasi naif, apparentemente innocuo ma molto molto consapevole, che racchiude una grande forza senza ostentarla. Minimalista ma grande!
mirimettoingioco ha detto:
“La sindrome dell’architetto” fotografa bene un certo atteggiamento nei confronti della casa, desiderio di piccole onnipotenze compreso. Il resto del commento mi fa pensare che avrei potuto/dovuto svolgere il brano al femminile.
ciao gg
ggianluigi ha detto:
Ma Va benissimo così: al femminile il ragnetto non avrebbe avuto scampo. 🙂
massimolegnani ha detto:
brano gradevole ma troppo didascalico, da messaggio ecumenico (se lo legge Papa Francesco magari ne usa uno stralcio nell’omelia di Pasqua)
Il primo paragrafo è giocato sull’equivoco che si parli di donne, poi l’AI non riesce a reggere oltre l’ambiguità ed esce allo scoperto (“la mia casa di campagna…), ma forse l’artificio iniziale è servito perchè il lettore legge della casa e un po’ pensa alla donna.
aggiungo che qualche passaggio (il ragno, la polvere) mi evocano altre letture che però ora non saprei ripescare.
ml
Cecil ha detto:
🙂 ma che razza di letture fai,ml… il ragno, la polvere! che se ci aggiungiamo qualche carpa un salmone, due ruote… 🙂
massimolegnani ha detto:
cecil, sono un uomo senza memoria, dimentico spesso quello che leggo, a volte anche quello che scrivo 🙂
mirimettoingioco ha detto:
A massimolegnani: domani accendero’ su rai uno cosi’ verifichero’ se davvero il papa citera’ qualche mia parola 🙂
righe orizzontali ha detto:
E’ una lettura classica e a me i classici piacciono a prescindere. Apprezzo molte cose di questo racconto: lo stile, il linguaggio, alcuni termini ricercati e quasi desueti che danno un senso di pacatezza al tutto. E poi l’armonia, la giusta lunghezza, la misura, la centratura del tema. Complimenti all’autore/autrice.
mirimettoingioco ha detto:
Che dire? Dopo il velato rimbrotto di ml, le tue parole sono un balsamo 🙂
ciao, grazie